LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE, IL RUOLO ED I POTERI DEL DIRIGENTE, LE RELAZIONI SINDACALI, LA VALUTAZIONE, LA RETRIBUZIONE
Di Arturo Bianco
INDICE
PREMESSA
CAPITOLO 1: LA GESTIONE DELLE RELAZIONI SINDACALI
CAPITOLO 2: IL SISTEMA PERMANENTE DI VALUTAZIONE
CAPITOLO 3: L’INCENTIVAZIONE DELLA PRODUTTIVITA’
CAPITOLO 4: SISTEMI DI RETRIBUZIONE E FORME DI INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI
CAPITOLO 5: LE NORME DISCIPLINARI
CAPITOLO 6: L’ORARIO DI LAVORO E LE FERIE
PREMESSA
Il processo avviato dal DLgs n. 29/1993, testo che è successivamente stato trasfuso nel DLgs n. 165/2001, ha portato alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici ed alla distinzione delle competenze tra organi politici e dirigenti. Quest’ultima scelta è inoltre contenuta, per gli enti locali, nelle principali norme di riforma che sono state dettate dal 1990 fino ad oggi, vedi in particolare la legge n. 142/1990, il DLgs n. 77/1995, la legge n. 127/1997, la legge n. 265/1999 ed il Dlgs n. 267/2000.
Siamo dinanzi a prescrizioni che continuano ad essere pienamente valide, sia nella loro impostazione di fondo che nelle legittimità, anche oggi e nel prossimo futuro su tutto il territorio nazionale. Sul terreno giuridico, la lettura della riforma del titolo V della Costituzione, che pure non ha espressamente inserito questi tra i temi rimessi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ci richiama alla necessità di considerare che siamo dinanzi a temi che possono essere ascritti, per gli enti locali, nel novero delle “funzioni fondamentali”, quindi ricomprese nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. E per tutte le PA arriviamo alla stessa conclusione sulla base della attribuzione alla competenza legislativa statale dell’ordinamento civile, nonché sulla base del principio che siamo dinanzi a norme di attuazione di quanto dettato dall’articolo 97 della Costituzione, in particolare per la imparzialità ed il buon andamento della attività amministrativa.
Sul terreno di merito, cioè sulle ragioni che hanno indotto il legislatore ad effettuare tale scelta, occorre considerare che appare sempre più necessario che la gestione delle PA si caratterizzi per il ruolo centrale che deve essere svolto dai dirigenti, cioè da soggetti che sono portatori di una specifica professionalità, non solo di tipo tecnico ma anche di tipo manageriale. Scelta che si collega, in particolare per gli enti locali, allo sviluppo del processo di valorizzazione delle competenze gestionali, in particolare dei comuni, scelta che il legislatore sta portando avanti da tempo attraverso interventi effettuati con la legislazione ordinaria e che è stato ulteriormente rilanciato dalla riforma del titolo V della Costituzione.
Le due scelte di fondo compiute nel DLgs n. 165/2001, e cioè la privatizzazione o contrattualizzazione del rapporto di lavoro e la distinzione delle competenze tra organi politici e dirigenti, sono tra loro strettamente ed indissolubilmente legate. Alla base di tale legame la chiara opzione in direzione della riforma della attività amministrativa, obiettivo che è peraltro anche alla base della legge n. 241/1990 e, in particolare, della valorizzazione del procedimento. Tali scelte sono inoltre collegate dalla attribuzione ai dirigenti di un ruolo centrale nella attività gestionale. Essi svolgono, come sappiamo, tutte le competenze gestionali, anche se ad elevato tasso di discrezionalità politica, e sono direttamente, ed in via esclusiva, responsabili dei risultati raggiunti. Sul terreno della gestione delle risorse umane sono individuati come i soggetti a cui sono attribuiti “le capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”, a partire dalla attribuzione del cd jus variandi. Di conseguenza tutti gli atti di gestione, con la esclusione di quelli espressamente indicati dalla legislazione, hanno la natura di atti privatistici, esattamente di atti unilaterali di diritto privato. E, come tali, non necessitano di una specifica motivazione, né devono essere preceduti da una comunicazione di avvio del procedimento; mentre sono per espressa previsione dettata nel nuovo testo della legge n. 241/1990 assoggettati ai vincoli posti per la tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi.
CAPITOLO 1: LA GESTIONE DELLE RELAZIONI SINDACALI
Nell’ambito della attribuzione ai dirigenti delle capacità e di poteri del privato datore di lavoro, occorre dedicare una specifica attenzione alla gestione delle relazioni sindacali. Siamo dinanzi ad una tematica che assume una notevole importanza e per la cui gestione si richiede una specifica professionalità.
L’importanza di questo fattore è significativamente cresciuto negli ultimi anni. I contratti collettivi nazionali di lavoro, in particolare quelli stipulati a partire dal 1999, cioè dopo la riforma operata dai Dlgs n. 396/1997 e n. 80/1998, si caratterizzano per la significativa valorizzazione del ruolo e del peso della contrattazione decentrata, nonché per la crescita dei suoi margini di autonomia. Occorre ricordare che negli enti locali, come in tutte le Pubbliche Amministrazioni, il ruolo di punta è in questa materia attribuito ai dirigenti, a cui il legislatore attribuisce i ”poteri e le capacità” del privato datore di lavoro. In tale ambito occorre ricomprendere anche la figura del segretario, che svolge compiti di coordinamento dei dirigenti; tale ruolo è da considerare come ulteriormente accresciuto nel caso in cui gli vengono attribuiti i compiti di direttore generale.
Negli enti locali la situazione concreta molto spesso è completamente diversa dal modello ipotizzato dalle norme e di difficile gestione; basta ricordare la presenza ed il rilievo che possono assumere i seguenti fattori:
- la diffusa vocazione degli amministratori a ricercare il consenso dei dipendenti;
- la assenza di una strategia complessiva di organizzazione e di sviluppo del personale;
- la conoscenza spesso poco attenta delle disposizioni contrattuali;
- la forza dello spirito di imitazione di esperienze praticate in altri enti locali;
- la sostanziale assenza di professionalità esperte nella tecnica delle relazioni sindacali.
Le indicazioni esistenti dall’analisi dei contratti decentrati confermano la sostanziale debolezza delle amministrazioni locali; in particolare si deve sottolineare che:
1) molto spesso gli oneri sono superiori a quanto previsto dalla contrattazione nazionale;
- risultano essere disciplinate dai contratti decentrati materie che non sono rimesse alla contrattazione, ma che sono oggetto di altre forme di relazioni sindacali (concertazione ed informazione);
- molti istituti vengono applicati in modo distorto (basta ricordare le diffuse e non selettive progressioni orizzontali, nonché la erogazione a pioggia delle indennità di produttività e di video terminalisti, l’uso improprio della indennità di disagio, etc);
- la composizione delle delegazioni trattanti di parte pubblica, spesso largamente caratterizzate dalla presenza di soggetti che sono direttamente e personalmente interessati dagli esiti della contrattazione;
- non sono utilizzate le forme di flessibilità organizzativa introdotte dai contratti.
La presenza di questo insieme di elementi evidenzia gli esiti complessivamente non soddisfacente a cui è fin qui approdata la gestione delle relazioni sindacali nella gran parte degli enti locali e la assoluta necessità di apportare elementi di correzione e di integrazione.
- LA TEORIA NEGOZIALE
La negoziazione presuppone l’esistenza di una interdipendenza tra gli attori: ciascuno ha bisogno dell’altro per soddisfare i propri interessi o valori ed ancora essa interviene tra interessi o valori delle parti che sono, almeno in parte, divergenti. Per questa parte utilizziamo ampiamente il lavoro del prof. Lino Codarda, dell’Università di Brescia.
Tali due elementi sono assai importanti, in quanto ci richiamano alla constatazione della “interdipendenza” tra le parti, cioè nessuna è dotata di un potere assoluto ed incondizionato. Le norme sul lavoro pubblico ci ricordano che nelle materie aventi come contenuto la erogazione di trattamenti economici, occorre necessariamente che gli stessi siano oggetto di una specifica e preventiva contrattazione; ma questo non significa che la parte sindacale abbia un potere di tipo assoluto. E’ infatti vincolata al rispetto delle indicazioni contenute nella contrattazione nazionale ed, in ogni caso, la assenza di una norma contrattuale può avere anche effetti negativi prevalentemente per i lavoratori.
Non meno rilevante è l’importanza della seconda considerazione: gli interessi rappresentati nella contrattazione sono, almeno in parte, tra loro divergenti. Quindi, gli interessi del datore di lavoro sono, almeno in parte, divergenti da quelli di cui sono portatori le organizzazioni sindacali.
Sulla base della definizione di Howard Raiffa “si assiste ad un processo negoziale in tutte quelle situazioni in cui due o più parti riconoscono l’esistenza di differenze di interessi o di valori tra di loro, ma intendono o sono costretti a raggiungere un accordo”.
Esistono, in linea teorica, due tipi di negoziazione: distributiva ed integrativa.
La negoziazione distributiva si ha nel momento in cui i negoziatori sono impegnati a distribuire una risorsa limitata e sono portatori di interessi tra loro contrapposti. Si prevede una “somma zero”. Essa si sviluppa intorno ad una cd “zona negoziale”, delimitata dai punti di resistenza dei negoziatori, cioè il minimo di utilità che le parti ricaverebbero comunque, anche in assenza di un accordo. L’unica strategia applicabile è quelle di tipi rivendicativo. In questo tipo di negoziazione due sono gli elementi di comportamento di grande importanza:
- cercare di stimare dove si colloca il punto di resistenza della controparte, per ottenere il massimo senza rischiare rotture;
- manipolare la percezione della situazione della controparte per indurla a fare la concessione più grande.
La negoziazione integrativa si sviluppa quando i negoziatori sono impegnati nella ricerca di un valore aggiunto per entrambi; si instaura un gioco “a somma variabile”. Due sono le strategie applicabili da parte degli attori: creare valore e rivendicare valore.
In tale ambito matura quello che viene chiamato il paradosso del dilemma del prigioniero, collaborare o defezionare. Ciascun giocatore ha una strategia dominante, cioè da adottare de vuole essere razionale. Ma se tutti e due i giocatori utilizzano la loro strategia dominante, il risultato è per entrambi peggiore di quanto otterrebbero violando il principio della razionalità. Le soluzioni, cioè il punto di equilibrio, sono raggiungibile attraverso la fiducia e l’iterazione del gioco. Laddove tale tipo di negoziati durino nel tempo gli attori possono rinunciare alla massimizzazione dei loro interessi nel breve termine in virtù di quelli di lungo periodo.
Il potere negoziale dipende dalla “struttura delle interdipendenze”: esso è infatti più elevato in capo ai soggetti che controllano risorse essenziali per l’altra parte e che può decidere di ritirare a proprio arbitrio. Ed ancora esso è più elevato nel soggetto che è in grado di suscitare aree di incertezza nell’altra parte; per suscitare aree di incertezza si deve intender la rottura delle regole di reciprocità attraverso il ritiro o la indisponibilità della propria prestazione. Alla luce di queste considerazioni si deve arrivare alla conclusione che il potere negoziale e la negoziazione siano un “gioco sulle regole”: il potere viene esercitato minacciando la trasgressione delle regole ed imponendo così l’avvio di un processo di ridefinizione delle nuove regole. In tale ambito acquista un grande rilievo concreto la determinazione con cui il soggetto mette in campo le proprie iniziative, cioè esercita il proprio potere negoziale; la determinazione è correlata alla capacità di sapere valutare le conseguenze delle proprie scelte. Ed un particolare rilievo acquista la capacità di sapere fare i conti con le proprie divisioni interne, avviando su tale fronte –ove necessario- una negoziazione interna, che si connette al negoziato interno.
Le regole negoziali sono definite dalle parti sulla base dell’equilibrio delle convenienze; mentre le regole normative sono organizzate gerarchicamente. In tale ambito si possono richiamare regole utilizzate con altri soggetti. Il potere negoziale non è legato esclusivamente alla minaccia dell’uso della forza: si possono richiamare a proprio vantaggio norme e principi più generali a cui la controparte, a pena di danni e/o ritorsioni maggiori, non può contravvenire. Non di minore rilievo è la capacità creativa di mobilitare a proprio vantaggio dei principi di carattere generale.
- INDICAZIONI OPERATIVE
Il processo negoziale può essere distinto in tre fasi: strutturazione strategica; fase tattica e soluzione del gioco negoziale
- Nella fase della strutturazione strategica si devono definire: i temi che entrano a far parte della trattativa, i partecipanti, le risorse attivabili, le aree di incertezza, le possibili soluzioni. Per la definizione dell’agenda occorre avere chiaro che siamo dinanzi ad un momento conflittuale. Tale definizione può avvenire sia in sede pregiudiziale che nel corso del negoziato; per i partecipanti, occorre mettere in conto le conseguenze delle scelte sui temi da inserire; per le risorse attivabili si devono considerare le conseguenze delle possibili convergenze di soggetti esterni; per le aree di incertezza diventa molto rilevante la capacità di sapere attivare un sistema di alleanze con soggetti esterni; non minore è la importanza di sapere prefigurare le possibili soluzioni ed i possibili scambi.
- Nella fase tattica le parti esplorano la possibilità concreta di dare soluzioni ai conflitti, il che si realizza sia scambiandosi informazioni ed agendo concretamente, in particolare attraverso la prefigurazione di scenari e l’impegno attivo a perseguire soluzioni. In tale fase è opportuno distinguere tra comunicazioni non impegnative, cioè scambi di considerazioni e valutazioni, e comunicazioni impegnative, con cui si comunicano le proprie intenzioni negoziali.
- La terza fase è costituita dalla soluzione del gioco negoziale, cioè dalla proposta di soluzione conveniente per le due parti, o –quantomeno- meno negativa delle conseguenze derivanti dal mancato accordo o dalla assunzione dell’onere di sancire la rottura. Essa deve tenere conto sia dei negoziati interni che di quelli esterni. Essa non vuole automaticamente dire che vengono risolti i problemi oggetto del negoziato, cioè che non necessariamente viene data una risposta ottimale alle esigenze da cui è scaturito il conflitto. Un accordo troppo penalizzante per una parte, ad esempio, non soddisfa in genere al requisito della stabilità dell’accordo.
Nella negoziazione vi sono quattro essenziali principi di conduzione di una trattativa:
- separare le persone dai problemi;
- concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni, cioè capire le ragioni della controparte, adottando anche al riguardo tutte le forme di comunicazione non impegnativa che si rendono necessarie;
- inventare soluzioni vantaggiose per entrambe le parti, cioè impostare il negoziato come un gioco a somma variabile e dare luogo a soluzioni creative. Si deve, al riguardo, tenere conto delle differenze tra gli attori per l’ordine di preferenza degli obiettivi, le stime di probabilità, il grado di propensione al rischio e le preferenze rispetto al tempo;
- insistere su criteri oggettivi, quali il valore di mercato, i precedenti, il giudizio scientifico, gli standard professionali, l’efficienza, gli standard morali, la tradizione, le possibili decisioni di un tribunale e la parità di trattamento.
I comportamenti consigliati sono i seguenti:
- porre molte domande per comprendere bene le esigenze e gli interessi dell’altra parte;
- effettuare brevi sintesi per definire lo stato della discussione ed i punti su cui c’è un accordo;
- iniziare ad esporre i motivi prima di esprimere il disaccordo;
- segnalare anticipatamente il comportamento successivo;
- dimostrare attenzione all’interlocutore;
- dimostrare coinvolgimento;
- esprimere considerazioni sulle proposte e sui comportamenti degli interlocutori, non sugli interlocutori;
- non utilizzare espressioni irritanti;
- non fare contro proposte;
- evitare di entrare in spirali difesa/attacco;
- avere un chiaro indirizzo politico, il che permette una riflessione sulla strategia organizzativa generale dell’ente, obbliga i politici a ragionare sull’impatto della contrattazione collettiva, favorisce la condivisione degli obiettivi, rafforza la delegazione trattante, favorisce una maggiore elasticità, responsabilizza la delegazione trattante, indica un atteggiamento attivo da parte dell’amministrazione, rafforza la capacità di elaborazione autonoma dell’ente. Essa deve essere elaborata con la partecipazione di tutte le componenti dell’amministrazione, politici e dirigenti, e la sua pubblicizzazione è da auspicare;
- arrivare al tavolo avendo elaborato propose su tutti i temi in discussione;
- stabilire priorità;
- anticipare ed esplorare i possibili obiettivi sindacali;
- preparare una specifica strategia da adottare al tavolo negoziale;
- attribuire ruoli precisi ai componenti ed al capo delegazione.
Nel settore degli enti locali occorre inoltre dedicare una specifica attenzione, sulla base delle attuali regole contrattuali, alla definizione delle risorse da destinare al fondo per la contrattazione, sulla base dei chiari limiti posti dalla contrattazione nazionale.
Ed ancora, avere ben cura di non superare i paletti (in termini di materie e di soluzioni) posti sempre dalla contrattazione nazionale, in particolare per ciò che riguarda la distinzione tra risorse stabili e risorse variabili.
CAPITOLO 2: IL SISTEMA PERMANENTE DI VALUTAZIONE
Con le nuove regole introdotte dal legislatore negli ultimi anni e, soprattutto, con i contratti che si sono succeduti dal 1999 ad oggi, la valutazione del personale è diventata per gli enti locali uno degli aspetti fondamentali dell’esercizio dell’attività gestionale. In particolare essa diventa una delle attribuzioni caratterizzanti il ruolo dirigenziale.
“A questa responsabilità nessun “capo” può sottrarsi, essendo per definizione e per espresso contenuto di ruolo il diretto responsabile delle risorse consegnategli e, nell’ambito di tutte queste risorse, prime per importanza e strategicità, quelle di “personale” a lui affidate per il raggiungimento di specifici risultati” sottolineano Arturo Bianco, Amedeo di Filippo e Marco Laezza nel volume “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore, 1999).
Occorre subito evidenziare lo stretto nesso che intercorre tra la attività di valutazione e le ampie forme di flessibilità introdotte nella gestione del personale. Tra esse acquistano un peso particolare le nuove regole per la valorizzazione della produttività e l’ampliamento del peso del trattamento economico accessorio, in particolare per i dirigenti ed i responsabili, nonché la progressione economica orizzontale, strumento che per molti aspetti si può considerare come quello di maggiore rilievo.
La valutazione costituisce un momento centrale della gestione delle risorse umane e, in tale ambito, assolve a rilevanti funzioni di supporto concreto ed operativo. In particolare, essa costituisce uno strumento per la verifica delle attività svolte e offre un concreto aiuto al cambiamento ed al miglioramento della attività amministrativa.
Le norme contrattuali prevedono che negli enti si dia corso ad un sistema permanente di valutazione. Esso si articola, per i dirigenti, nel sistema di pesatura degli incarichi, a cui è connessa la quantificazione della indennità di posizione, e nel sistema di valutazione delle attività svolte dai dirigenti ai fini della erogazione della indennità di risultato. Si articola nei seguenti momenti, per ciò che riguarda il personale:
- Sistema di pesatura delle posizioni organizzative, finalizzato alla quantificazione della retribuzione di posizione per i titolari di posizione organizzativa. Tale sistema deve essere adottato tanto negli enti con i dirigenti, in cui tali incarichi sono conferiti dai dirigenti, che in quello senza dirigenti, realtà in cui il conferimento della titolarità di posizione organizzativa remunera la attribuzione di incarichi dirigenziali da parte del sindaco ed in cui le relative risorse non sono prelevate dal fondo per la contrattazione decentrata, ma sono poste a carico del bilancio dell’ente;
- Sistema di pesatura delle alte professionalità, finalizzato alla quantificazione della retribuzione di posizione per i dipendenti a cui sono conferiti incarichi di alta professionalità. Tale sistema deve essere adottato tanto negli enti con i dirigenti che in quelli che ne sono sprovvisti;
- Sistema per la misurazione dei risultati raggiunti dai dipendenti cui sia stata attribuita la titolarità di posizioni organizzativa e/o degli incarichi di alta professionalità, finalizzato alla determinazione della retribuzione di risultato da attribuire ai titolari di posizione organizzativa;
- Sistema per la valutazione dei dipendenti ai fini del riconoscimento della progressione economica orizzontale all’interno della categoria;
- Sistema per la valutazione delle prestazioni dei dipendenti ai fini del riconoscimento della indennità di produttività da corrispondere a fronte del raggiungimento degli obiettivi assegnati.
Siamo, come si vede, dinanzi ad un sistema che si applica a tutti i livelli, posto che anche i segretari ed i dirigenti sono oggetto di valutazione e che anche ad essi sono posti degli obiettivi da raggiungere. Possiamo cioè dire che la logica degli obiettivi costituisce il tratto caratterizzante del modello che presiede allo svolgimento della attività amministrativa.
Le norme contrattuali vincolano la adozione del sistema permanente di valutazione del personale e di quello dei dirigenti alla utilizzazione di specifiche procedure di relazione sindacale.
In particolare:
1) sono oggetto di contrattazione decentrata integrativa a livello di ente :
- a) i criteri generali relativi ai sistemi di incentivazione del personale sulla base di obiettivi e programmi di incremento della produttività e di miglioramento della qualità del servizio; i criteri generali delle metodologie di valutazione ed i criteri di ripartizione delle risorse destinate alle finalità di cui all’art. 17, comma 2, lett. a) del CCNL 1 aprile 1999 (art. 4 c. 1, lett, B e c. 3,; vedi anche l’articolo 18 del CCNL 1 aprile 1999, per come sostituito dall’articolo 37 del CCNL 22.1.2004). Su questi aspetti ricordiamo che è materia di concertazione la metodologia permanente di valutazione;
- b) il completamento e l’integrazione dei criteri per la progressione economica all’interno della categoria (art. 16, c. 1, CCNL 31 marzo 1999 e art. 4 c. 3, CCNL 1 aprile 1999);
- c) le modalità di ripartizione delle eventuali risorse aggiuntive per il finanziamento della progressione economica e per la loro distribuzione tra i fondi annuali di cui all’art. 14 (art. 16, c. 1, CCNL 31 marzo 1999 e art. 4 c. 3, CCNL aprile 1999).
2) Sono oggetto di informazione ed eventualmente di concertazione sindacale (art. 16, c. 2, lett. B, C e D del CCNL 31 marzo 1999 e art. 7 c. 2, CCNL 1 aprile 1999):
- a) la valutazione delle posizioni organizzative e delle alte professionalità, ovviamente in termini di carattere generale, e la relativa graduazione delle funzioni;
- b) il conferimento degli incarichi relativi alle posizioni organizzative e delle alte professionalità, ovviamente in termini di carattere generale, e la relativa valutazione periodica;
- c) la metodologia permanente di valutazione di cui all’art. 6 del CCNL 31 marzo 1999.
2.1 LA VALUTAZIONE DEL PERSONALE
La valutazione del personale, per questa parte attingiamo largamente a Arturo Bianco, Amedeo di Filippo e Marco Laezza nel volume “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore, 1999), si può definire come la formulazione di: “un giudizio sistematico del valore di un individuo – con riguardo alla sua prestazione sul lavoro e al suo potenziale di sviluppo – per l’organizzazione di cui fa parte, espresso periodicamente, secondo una determinata procedura, da una o più persone appositamente incaricate, che conoscono l’individuo stesso e il suo lavoro”.
Dalla definizione data si evince che la caratteristica essenziale della corretta attività di valutazione è la sistematicità.
Attività sistematica di valutazione vuol dire esprimere giudizi secondo procedure definite e controllate, basate su premesse teoriche e metodologiche precise, tramite l’utilizzo di fattori predefiniti e formulate con l’impiego di un linguaggio e con tecniche comuni a tutti i valutatori.
La sistematicità del giudizio è, allo stesso tempo:
- Un’esigenza per l’organizzazione;
- Un diritto per il singolo individuo;
- Una responsabilità (gestionale) per i capi.
Lo scopo preciso della valutazione sistematica del personale è, quindi, quello di tracciare per ogni persona un profilo completo e accurato del suo valore, attuale e potenziale.
Solo con l’approvazione del C.C.N.L. sul nuovo ordinamento professionale è fatto obbligo, (vedi art. 6) ad ogni ente di “adottare metodologie permanenti per la valutazione delle prestazioni e dei risultati dei dipendenti, anche (il che vuol dire “non solo”) ai fini della progressione economica di cui al presente contratto…”.
Questo passaggio contrattuale, per le sue implicazioni culturali e gestionali, è da considerarsi, senz’altro, come l’aspetto chiave dell’intero nuovo ordinamento professionale.
I fattori di valutazione si circoscrivono nettamente per delimitarsi agli specifici aspetti della prestazione lavorativa e del comportamento organizzativo.
La valutazione del personale non è una valutazione delle persone quanto una valutazione dei comportamenti organizzativi. La valutazione del personale, conseguentemente, diventa una leva di gestione finalizzata ad indirizzare i comportamenti delle persone agli obiettivi dell’Ente.
L’utilizzo di questo strumento, come di tutti gli altri strumenti che caratterizzano l’attività di gestione, è peculiarità e specifica attribuzione dei ruoli di capo.
Tutte le organizzazioni, attraverso i loro presidi gerarchici – i capi -, esercitano da sempre l’attività di valutazione del proprio personale, cioè esprimono un giudizio sulle singole capacità, sui meriti e sulle caratteristiche dei propri dipendenti, solo che non tutte lo fanno secondo le stesse modalità.
Per alcuni enti, l’attività di valutazione è un’attività formalizzata, per altri enti non lo è. L’alternativa, quindi, non è nel fare o nel non fare la valutazione del personale, tutte le organizzazioni, infatti, la fanno, quanto nel farla secondo un criterio di sistematicità e metodo oppure farla empiricamente, in altre parole, senza metodo. Una comparazione fra gli aspetti derivanti dall’impostazione della valutazione in termini formalizzati piuttosto che empirici può così essere sintetizzata:
Se la valutazione è FORMALIZZATA:
- Si potrà operare in un sistema caratterizzato dall’applicazione di una METODOLOGIA, frutto di studi e di esperienze consolidate, e dall’uso di una STRUMENTAZIONE (manuale di valutazione, schede di valutazione, modulistica varia);
- La valutazione sarà inserita e caratterizzata da un’ottica di processo, contraddistinta cioè dalla PERIODICITÀ’ e dalla CONTINUITÀ’(tutti hanno la certezza di essere valutati e ne conoscono le modalità);
- I risultati saranno OMOGENEI, anche se fatte da valutatori diversi e quindi CONFRONTABILI sia nel tempo (valutazione dell’anno n con le valutazioni degli anni successivi), che nello spazio (valutazione di una partizione strutturale con le valutazioni di tutte le altre unità di struttura)
- Si avranno sicuramente sempre MINORI DISTORSIONI valutative dovute al continuo addestramento e affinamento sia dei valutatori sia del sistema;
- Possibilità di inserire i dati della valutazione in un SISTEMA GESTIONALE più ampio, che consenta in pratica di utilizzare queste informazioni anche per altre finalità gestionali (impostazione dei piani di formazione, percorsi di sviluppo del potenziale, piani di sostituzione, ecc.).
Se la valutazione NON E’ FORMALIZZATA:
- Si opererà in un ambiente caratterizzato dalla estrema SOGGETTIVITÀ’,
- La valutazione sarà caratterizzata e contraddistinta dalla SALTUARIETÀ’ e dalla CASUALITÀ’ (nessuno ha la certezza di essere valutato, né del come, né del quando);
- Le valutazioni NON SARANNO OMOGENEE, quindi non sarà possibile confrontarle fra loro, sia nel tempo sia nello spazio;
- Si avranno sempre MAGGIORI DISTORSIONI valutative;
- Non sarà possibile inserire i dati della valutazione in un SISTEMA GESTIONALE più ampio, che consenta in pratica di utilizzare queste informazioni, anche per altre finalità gestionali (fabbisogni formativi, piani di mobilità, tavole di rimpiazzo, ecc.)
I principali obiettivi della valutazione sono relativi a:
- Disporre di una base imparziale e oggettiva per adeguare il singolo aspetto retributivo al “valore” della Posizione occupata, determinando la relativa indennità (valutazione delle Posizioni);
- Ottenere dati obiettivi e omogenei su tutto il personale, anche al fine di una migliore utilizzazione d’ogni risorsa umana: per attuare, in sostanza, quelle politiche di selezione e di acquisizione delle Risorse umane, di mobilità e di gestione dei trasferimenti che concorrono a definire “la politica del personale” di ogni singolo ente;
- Disporre di elementi oggettivi e trasparenti per attuare delle corrette politiche di mobilità verticale e di progressione economica nonché d’applicazione dei sistemi incentivanti previsti dai C.C.N.L., (valutazione delle Prestazioni);
- Disporre di un inventario delle capacità e delle potenzialità del personale per migliorare l’organizzazione e l’efficienza, nonché per far fronte in modo tempestivo e adeguato ad ogni futura necessità di variazione e/o di mutamento organizzativo (valutazione del Potenziale);
- Rilevare i fabbisogni di aggiornamento, addestramento e di formazione, dati dalla differenza fra il livello delle conoscenze, delle abilità e delle capacità rilevate individualmente e quelle richieste o necessarie dalla posizione occupata o di futura destinazione;
Esistono poi altre finalità, non primarie, ma non per questo meno importanti, che i sistemi di valutazione formalizzati attivano in termini di ricaduta positiva. Queste sono:
- La possibilità di aiutare lo sviluppo individuale attraverso la continua tensione al miglioramento che il personale attua consapevolmente quando è conscio che il singolo rendimento e la personale prestazione, siano gli stessi negativi o positivi, saranno valutati sistematicamente e periodicamente;
- Contribuire a migliorare il morale aziendale, determinandosi nei dipendenti la convinzione della serietà con cui la Direzione s’interessa concretamente, e in modo trasparente, al personale;
- Assicurare che i buoni elementi non saranno dimenticati (la valutazione formalizzata “toccherà” sempre tutti, riconoscendo i singoli meriti);
- Stimolare la linea gerarchica dei capi a seguire, con metodo e con attenzione, ogni collaboratore, così da poter sempre esprimere un giudizio completo e rispondente alle reali “performances”;
- Aiuta, infine, la Direzione a valutare i capi, in altre parole a giudicare la lealtà, la severità o l’indulgenza con cui ogni singolo capo giudica i propri collaboratori.
Inoltre, vi è da porre la dovuta attenzione al fatto che il desiderio di vedere considerato il proprio lavoro e di averne un riconoscimento in termini d’attestazione dei successi ottenuti, ovvero di essere stimati per i propri meriti, sono alcune fra le più forti motivazioni dell’uomo al lavoro.
L’assenza di una valutazione sistematica genera nel personale la convinzione, più o meno fondata, che i giudizi sui dipendenti, con le relative ripercussioni in termini di carriera e di sviluppo, siano gestiti in modo quantomeno “non lineare”, che questi giudizi siano, in pratica, attribuiti secondo parametri e valutazioni troppo soggettive ed empiriche che sfuggono a logiche d’oggettività, di trasparenza, di merito.
Questo contribuisce alla creazione di un generalizzato malumore, di un senso di sfiducia nell’Amministrazione dell’Ente, di un costante motivo di scontento, situazioni tutte che costituiscono un mix formidabile per il mantenimento d’alti livelli di conflittualità, latente e manifesta e, cosa ben più preoccupante, ingenera il contesto ideale in cui gli inetti hanno la possibilità di mascherarsi e i capaci trovano la possibilità di essere mortificati.
La valutazione sistematica può invece concorrere, per le sue caratteristiche, alla creazione di un clima aziendale positivo, disteso ed efficiente; ognuno e conscio, infatti, che sarà valutato per le sue prestazioni e per i suoi meriti, e vede che lo stesso principio e uniformemente applicato nell’organizzazione.
CAPITOLO 3: L’INCENTIVAZIONE DELLA PRODUTTIVITA’
La erogazione della indennità di produttività è una materia che è stata oggetto di innovazioni con il contratto collettivo nazionale di lavoro del 22.1.2004. Tali innovazioni, senza modificare quanto disposto sulle regole per la erogazione da parte del CCNL 1.4.1999, ne hanno modificato le parti relative al maturare delle condizioni in base alle quali essa può essere erogata ed hanno in particolare voluto sottolineare il carattere meritocratico che deve ispirare la utilizzazione di tale istituto.
Sulla base delle nuove regole, la erogazione della produttività è oggi sottoposta a rigide clausole:
1) si deve realizzare un effettivo incremento della produttività,
2) si deve concretizzare un miglioramento quali-quantitativo dei servizi,
3) si devono raggiungere risultati aggiuntivi apprezzabili rispetto al risultato atteso dalla normale prestazione lavorativa.
L’erogazione del compenso di produttività, ricorda l’Aran in risposta ai quesiti posti, è sottoposta ad una preventiva valutazione dei risultati e delle prestazioni che è effettuata dai dirigenti.
Il primo passaggio, preliminare alla stessa valutazione effettuata dai dirigenti, è costituito dalla verifica del livello di conseguimento degli obiettivi indicati nel PEG o negli altri strumenti di programmazione, verifica che è effettuata dal servizio di controllo interno, cioè in linea generale si deve intendere che tale compito è attribuito al nucleo di valutazione. Fermo restando che sulla materia della concreta individuazione del soggetto a cui sono attribuiti negli enti i compiti di controllo interno e sulla definizione delle regole che presiedono alla sua attività, vi è una ampia autonomia statutaria e regolamentare attribuita ai singoli enti. Infine, i dirigenti la erogano sulla base di una specifica attività di valutazione.
Il CCNL del 22.1.2004 prevede che non è consentita la sua erogazione a pioggia, cioè sulla base di automatismi comunque denominati.
Tale divieto si doveva considerare implicito sulla base delle disposizioni contrattuali già esistenti, per cui siamo dinanzi ad una sua mera esplicitazione. Infatti, in questi anni abbiamo avuto alcune sentenze della Corte dei Conti che hanno riconosciuto il maturare di una responsabilità erariale in capo agli enti che hanno disposto la erogazione a pioggia della indennità di produttività. A nulla è valsa la considerazione che tali risorse sono comunque comprese nel fondo per la contrattazione decentrata; la erogazione a pioggia determina a giudizio della Corte dei Conti un danno in quanto dispone di fatto un mero aumento dello stipendio e non è collegata a prestazioni realmente aggiuntive. Si considerano a pioggia, tra gli altri, i seguenti criteri: presenza, categoria etc.
Sulla base delle prescrizioni introdotte dal CCNL 22.1.2004 non si deve provvedere alla erogazione della produttività a dipendenti che non siano effettivamente in servizio. Ed ancora, la sua erogazione deve essere limitata si dipendenti che hanno effettivamente raggiunto i risultati ad essi assegnati.
Non è possibile introdurre in sede di contrattazione decentrata nessuna diversa previsione, neppure se essa riguardi la attribuzione di una quota della produttività teoricamente spettante ad un dipendente di quella categoria.
Le norme del contratto nazionale hanno carattere vincolante e le eventuali diverse previsioni contenute nei contratti decentrati sono nulle e non possono essere applicate, in quanto in contrasto con le previsioni del CCNL.
La concreta erogazione della indennità di produttività è collegata alla valutazione che deve essere effettuata dai dirigenti o, negli enti che ne sono sprovvisti, dai responsabili.
Tale attività deve essere svolta sulla base dei criteri che sono definiti in linea generale nel contratto nazionale sul nuovo ordinamento professionale. Tali criteri sono oggetto di integrazione in sede di contrattazione collettiva decentrata. Costituisce infine materia di concertazione la definizione della scheda che applica le disposizioni contrattuali. E’ evidente che i criteri di valutazione definiti in sede di contratto decentrato devono essere coerenti con quelli selettivi e meritocratici contenuti nel contratto nazionale.
Non sono oggetto di relazioni sindacali le concrete attività di valutazione svolte dai singoli dirigenti e responsabili.
Gli enti devono definire la misura del salario di produttività. Tale quantificazione deve essere fatta in sede di contrattazione decentrata utilizzando la parte variabile delle risorse decentrate e, se si vuole, anche una quota della parte stabile.
Gli enti fissano i criteri di ripartizione del salario di produttività tra le varie articolazioni organizzative e/o centri di responsabilità o di costo. In tale ripartizione possono essere utilizzati esclusivamente criteri automatici, quali ad esempio il numero dei dipendenti, ovvero criteri discrezionali, quali ad esempio il rilievo delle attività. Si possono combinare tale fattori ovvero si può utilizzare anche gli esiti della pesatura delle posizioni organizzative. Altro punto che può essere introdotto è costituito dalla utilizzazione delle quote residue o non utilizzate, ad esempio per mancato raggiungimento in misura piena degli obiettivi. Riutilizzazione che può essere disposta, ad esempio, a vantaggio dei dipendenti delle articolazioni organizzative che hanno pienamente raggiunto gli obiettivi.
Una parte centrale nella disciplina della erogazione della indennità di produttività è costituita dalla definizione degli obiettivi. Essi possono essere strettamente collegati a quelli posti al dirigente o responsabile, talchè si stabilisca nell’ambito dell’ufficio un legame stretto ed una sorta di possibile “circuito virtuoso”.
Anche per questi obiettivi valgono le regole di carattere generale che presiedono alla definizione degli obiettivi: essi devono essere chiari, precisi, concreti ed effettivamente misurabili.
Devono concretamente consentire di raggiungere risultati aggiuntivi ed apprezzabili rispetto alle normali prestazioni di lavoro.
Essi devono essere comunicati in anticipo ai dipendenti, anzi possibilmente gli stessi devono concorrere alla loro definizione sulla base di una specifica proposta.
Il contratto collettivo nazionale di lavoro del 22 gennaio 2004 non parla in alcun modo di progetti di produttività o di piani di lavoro. Per cui possiamo sicuramente considerare tali strumenti, pure largamente utilizzati da molti enti, oggi al di fuori delle previsioni contrattuali.
In particolare, occorre ricordare che gli enti non possono disporre la erogazione di trattamenti accessori a fronte di specifici progetti o attività aggiuntive. Gli enti possono integrare le risorse decentrate, parte variabile, con risorse aggiuntive connesse alla attivazione di nuovi servizi e/o al miglioramento o ampliamento di quelli esistenti. Un percorso che cioè tende ad assicurare comunque una risposta alla esigenza di disporre forme aggiuntive di trattamento economico per la erogazione di servizi aggiuntivi.
CAPITOLO 4: SISTEMI DI RETRIBUZIONE E FORME DI INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI
Con il nuovo contratto del personale degli enti locali acquistano un peso centrale gli elementi di valutazione, sia delle prestazioni che del potenziale che delle posizioni, e diventa sempre più evidente il loro stretto collegamento con il trattamento economico accessorio. Nel volume di Arturo Bianco, Amedeo Di Filippo e Marco Laezza “La gestione del personale degli enti locali” (Maggioli editore 1999) leggiamo che “la valutazione delle Prestazioni costituisce, insieme alla valutazione del Potenziale, l’aspetto “soggettivo” di un generale sistema per la valutazione del Personale. L’obiettivo di questa valutazione è quello di individuare come il singolo individuo, in una visione di “gioco di squadra”, ha contribuito al raggiungimento dei risultati organizzativi. L’oggetto della valutazione è costituito, quindi, dal giudizio circa il “valore relativo” del lavoro svolto dalla persona che occupa una Posizione organizzativa, vale a dire del “valore” complessivo del livello di compiti svolti, di risultati ottenuti e di comportamenti mantenuti.
3.1 LA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI PRESTAZIONE
Per “Prestazione” s’intende: “quello che la persona ha fatto, e come lo ha fatto, in un periodo di tempo delimitato, rispetto ai compiti assegnati e ai risultati che l’organizzazione si attende dalla sua attività di lavoro.”
Quindi, si tratta di definire quali sono stati i suoi risultati quantitativi e qualitativi in un certo periodo, quale è stato il livello di preparazione professionale e di competenza dimostrato nel suo lavorare, quali degli obiettivi prefissati ha raggiunto e in che misura.
In sostanza, si tratta di verificare, prima, (fase di riscontro), e di valutare, dopo, (fase del giudizio), in quale misura e con quali modalità l’individuo ha svolto il suo “ruolo” (ruolo = comportamento esplicitato dalla persona sulla Posizione) nel periodo in esame.
Attraverso la valutazione si attiva quindi un processo periodico di determinazione di FATTI (PRESTAZIONI, quantitative e qualitative, COMPORTAMENTI), e di CARATTERISTICHE SOGGETTIVE (CAPACITA’ e ATTITUDINI), svolto in maniera sistematica, sulla base di criteri uniformi e di una procedura determinata.
Perché il giudizio porti ad una valutazione corretta e obiettiva, occorre che lo stesso si fondi esclusivamente su dati e fatti relativi a questi eventi (attività, comportamenti, risultati), e non su opinioni personali o impressioni generiche.
3.2 LE FINALITA’ DELLA VALUTAZIONE DELLE PRESTAZIONI
All’attività di valutazione delle Prestazioni, ognuna delle componenti organizzative: l’Ente o Azienda, i valutatori (che sono i “capi”), e i valutati (che sono i dipendenti interessati), abbina specifici e propri obiettivi. Questi obiettivi non sono in contrapposizione, anzi, in una ottica di sviluppo queste tre angolazioni si integrano per concorrere a definire una moderna e professionale gestione delle risorse umane.
Ma quali possono essere questi singoli obiettivi?
- Gli Obiettivi “aziendali”:
- Migliorare l’orientamento ai risultati aziendali attraverso il maggior coinvolgimento e il continuo chiarimento delle responsabilità e dei compiti singolarmente attribuiti;
- Favorire, attraverso la rilevazione sistematica e oggettiva delle prestazioni, un sistema di gestione e sviluppo delle Risorse Umane coerente con le politiche aziendali favorendo, in modo particolare, la definizione di uno stile di gestione attraverso:
- La responsabilizzazione dei ruoli di “capo”;
- L’omogenea parametrazione dei giudizi, effettuata attraverso la scheda di valutazione;
- La comunicazione e la discussione dei risultati con gli interessati;
- Rafforzare l’efficacia delle relazioni interne attraverso comunicazioni trasparenti e continue sui contenuti e sui risultati del lavoro;
- Migliorare l’utilizzo delle risorse professionali;
- Raccogliere indicazioni per l’attività di addestramento e formazione;
- Razionalizzare e rendere più oggettivo il sistema di incentivazione economica.
- Gli Obiettivi del “valutatore”:
- Individuare i punti forti e i punti deboli della propria unità organizzativa, migliorandone i risultati, attraverso la continua analisi del rapporto tra obiettivi e risorse professionali;
- Rendere i rapporti capo/collaboratori meno paternalistici e più professionali;
- Esercitare al meglio le funzioni di coordinamento, guida e sviluppo dei collaboratori ottenendone, altresì, il coinvolgimento sui programmi di lavoro;
- Verificare il proprio stile di gestione e la capacità d’essere “leader”.
- Gli Obiettivi del “valutato”:
- Migliorare la conoscenza dei compiti relativi al proprio ruolo;
- Partecipare alla definizione delle modalità operative necessarie per raggiungere i risultati attesi;
- Misurarsi con le aspettative del superiore (ottenendo risposta al bisogno di riconoscimento);
- Conoscere i criteri e i risultati della valutazione della propria prestazione professionale per poterla verificare e migliorare;
- Rispondere al bisogno d’appartenenza sentendosi membro attivo e integrato dell’Ente;
- Trovare occasione per parlare dei problemi attuali e di programmi futuri (autorealizzazione)
La valutazione per obiettivi costituisce il metodo per determinare, nel modo più oggettivo possibile, il livello di prestazione dell’individuo con diretto riferimento al “cosa” ha fatto, ovvero con diretto riferimento ai risultati conseguiti.
Le premesse fondamentali per una corretta applicazione del metodo sono: una corretta definizione del campo di responsabilità “istituzionale”, riferita alla Posizione ricoperta dal soggetto da valutare, ovvero una definizione dei compiti e degli obiettivi prioritari, direttamente collegati allo scopo primario di costituzione della Posizione (perché esiste la Posizione? Cosa deve garantire? Quale contributo deve assicurare? Con quali modalità?)
Ed ancora, una corretta definizione del campo di responsabilità “specifiche”, attribuite alla Posizione in relazione a compiti e obiettivi riferiti ad attività richieste da particolari esigenze organizzative.
Questi due aspetti costituiscono la situazione strutturale “oggettiva”, e di partenza, da cui si avvia tutto il processo di definizione degli obiettivi di periodo, processo che vede, appunto, in questa situazione organizzativa lo “standard” di riferimento.
La valutazione per obiettivi prevede che il giudizio venga espresso rispetto ad una serie di obiettivi concordati preventivamente tra superiore e dipendente. In realtà, il capo non giudica, ma constata insieme al proprio collaboratore sia gli stati d’avanzamento verso il risultato sia il livello di raggiungimento degli obiettivi prefissati, cioè se i risultati attesi sono stati realizzati e, se non lo sono stati, insieme analizzano e identificano cause e ragioni della non completa loro realizzazione.
L’attenzione si sposta dal giudizio di merito alla comune gestione del “processo di valutazione”, degli obiettivi e dei risultati.
Quello che qualifica l’individuo, insomma, sono i risultati, non il giudizio dato dal capo.
3.3 LA INCENTIVAZIONE PER OBIETTIVI
Il contratto prevede varie forme di incentivazione del trattamento economico accessorio legato al raggiungimento di specifici obiettivi.
- Per i dirigenti ed i responsabili a cui sono attribuiti gli incarichi di posizione organizzativa, abbiamo la corresponsione di una “indennità di risultato”. Essa varia dal 10 al 25% della indennità di posizione e la sua corresponsione è subordinata all’accertamento dell’effettivo raggiungimento dei risultati contenuti nel piano degli obiettivi approvato dalla giunta unitamente al PEG. Si richiede l’istituzione e l’attivazione del nucleo di valutazione ed il suo effettivo intervento.
- Per i dipendenti esso è previsto dai già citati articoli 15 e 17 del contratto, come nuova forma “principe” di salario incentivante la produttività ed è subordinato all’effettivo raggiungimento dei risultati. Essi vengono accertati dai dirigenti in sede di valutazione dei dipendenti ed è previsto l’intervento del nucleo di valutazione per l’accertamento effettivo del complessivo raggiungimento dei risultati indicati.
Siamo quindi dinanzi a meccanismi e regole del tutto nuovi rispetto al passato. Meccanismi e regole che assumono con chiarezza le seguenti scelte di fondo:
- fare crescere il peso del trattamento economico accessorio rispetto a quello fondamentale. Tale scelta è comune a tutte le categorie e si presenta in modo particolarmente marcato per i dirigenti e/o quadri;
- collegare il trattamento economico accessorio a risultati effettivamente raggiunti ed a metodi selettivi, nonché alle scelte programmatiche dell’ente;
- ottenere così effetti di flessibilità nella gestione delle retribuzioni.
In altri termini, la regola del “si sale e si scende” tende a diventare prassi anche negli enti locali. E’ del tutto evidente, a questo punto, la necessità di definire effettive pratiche di controllo gestionale, e non di legittimità formale, come contrappeso ad errori o forme “patologiche” di gestione delle nuove opportunità.
E’ inoltre facile prevedere che il passaggio alle nuove regole, rompendo abitudini inveterate, crei notevoli “problemi” nel primo impatto. E come tali problemi risulteranno ampliati nel caso di gestioni dei percorsi professionali che non risultino del tutto lineari e coerenti con gli obiettivi indicati e con le logiche volute dal contratto e, più in generale, dalla nuova legislazione.
CAPITOLO 5: DALLA PIANIFICAZIONE, PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO DEI CARICHI DI LAVORO ALLA PROGRESSIONE DEL PERCORSO PROFESSIONALE
Il legislatore, nel corso della progressiva introduzione di nuove regole e del nuovo modello organizzativo, ha inteso trasformare i precedenti vincoli di legittimità ed i precedenti divieti in forme di controllo più razionale e “scientifico” sulla struttura degli enti. Il legislatore, in modo “pedagogico” annota Carmine Russo nel “Commentario al DLGS n. 29/93, Giappichelli editore 1995), cerca di guidare gli enti locali nel nuovo modello. A tal fine, in modo centralistico e tecnocratico, cerca di prevedere requisiti minimi essenziali che ogni ente locale, in modo differenziato, deve possedere.
In tal senso diventa emblematico quanto previsto nel passaggio dalla vecchia pianta organica al nuovo e più dinamico concetto di dotazione organica introdotto dal DLGS n. 29/93. Il passaggio prevedeva che ogni enti locale in modo obbligatorio proceda preventivamente, e ripeta periodicamente l’operazione, alla “rilevazione dei carichi di lavoro”. Tale rilevazione doveva essere effettuata con tecniche e modelli approvati preventivamente dal Dipartimento della Funzione Pubblica. Progressivamente, ed opportunamente, la norma viene temperata, fino a che oggi essa costituisce un obbligo per un numero ristretto ed una serie di casi ristretti. La norma tentava di dare una omogeneità minima, definita su caratteristiche e standard nazionali, alle dotazioni organiche. La norma tendeva anche a introdurre tecniche che consentano l’esame analitico ed il confronto tra le dotazioni organiche degli enti locali.
Con la successiva legislazione, in particolare legge n. 127/97, Dlgs n. 80/98 e legge n. 265/99, norme trasfuse nel DLgs n. 267/2000, nonché con le leggi finanziarie degli ultimi anni, si è scelto un percorso diverso. Tali nuove logiche hanno trovato un forte e positivo riscontro nel contratto quadriennale 1998/2001 e nel nuovo ordinamento professionale.
Due le scelte di fondo:
- privilegiare la autonomia organizzativa dei comuni;
- introdurre il dato della progressione del percorso professionale.
Occorre considerare che tale percorso nelle ultime leggi finanziarie ha conosciuto delle spinte contraddittorie, visto che la distinzione tra pianta organica e dotazione organica è stata confusa (vedi in particolare la mancanza di chiarezza sulla possibilità di prevedere posti non coperti e che l’ente non intende coprire attraverso la programmazione delle assunzioni).
5.1 L’AUTONOMIA DEGLI ENTI
Per la autonomia organizzativa si sono previste norme assai ampie, tranne che per i comuni dissestati o deficitari, comuni ad autonomia ridotta. La autonomia trova un limite nelle risorse finanziarie dell’ente e nella esigenza di assicurare al meglio l’espletamento dei compiti dell’ente stesso.
Essa trova inoltre un limite di principio nelle norme contenute nelle leggi finanziarie, nel patto di stabilità, nel DLGS n. 165/2001 e nello stesso contratto sulla indicazione della “riduzione delle spese per il personale”.
Sono emblematiche le regole dettate dalla legge n. 488/99. Esse prevedono indicazioni di principio che i singoli enti, in modo assolutamente autonomo, sono chiamate a recepire nei propri ordinamenti. Prevedono un percorso logico specifico preventivo alle nuove assunzioni, a partire dalla loro finalizzazione. Le nuove assunzioni devono costituire una risposta obbligata, occorre prevedere in che modo con interventi (anche formativi) si possano affrontare con risorse interne le nuove necessità, bisogna privilegiare quelle ad alto contenuto professionale. Ed ancora, occorre preventivamente verificare che non sia possibile dar corso ad assunzioni con strumenti di flessibilità (a tempo determinato, formazione/lavoro, apprendistato etc); una quota significativa deve essere destinata ai contratti a part-time, sia come nuove assunzioni che come trasformazione di posti esistenti. In tale ambito occorre peraltro evidenziare che la legge n. 488/99 prevede la possibilità per i dirigenti ed i quadri di accedere al part-time. Ed ancora sono state introdotte anche per le pubbliche amministrazioni una serie di ulteriori disposizioni di flessibilità.
La legge finanziaria 2005, legge n. 311/2004, dispone inoltre la riduzione della spesa prevista dalla dotazione organica nella misura di almeno il 5% sulla base di disposizioni, non ancora adottate, che devono essere contenute nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con cui si pongono limiti alle assunzioni a tempo indeterminato per gli anni 2005, 2006 e 2007.
Occorre inoltre ricordare la ampia autonomia che gli enti hanno nella utilizzazione di risorse esterne con legami a tempo determinato, quindi senza appesantimenti definitivi. Possibilità che è attualmente preclusa agli enti che non hanno rispettato il patto di stabilità Ricordiamo la possibilità di nomina del direttore generale, ed ancora le opportunità di assunzione di dirigenti/responsabili per posti vuoti nella dotazione organica o, entro limiti numerici prefissati, al di fuori della stessa. Ed ancora le possibilità di conferimento di incarichi di consulenza e di alta professionalità, incarichi a cui non è connessa la possibilità si svolgere compiti gestionali. Possibilità di conferimento di incarichi che è sottoposto ai rigidi vincoli di tipo procedurale posti dalla legge n. 311/2004 per gli enti locali con più di 5.000 abitanti.
Occorre ricordare inoltre la incentivazione dell’associazionismo tra gli enti, in particolare tra i piccoli comuni: una scelta ed una sfida che diventano sempre più obbligate. In tale ambito, il DLgs n. 267/2000 ha sottolineato la costituzione di uffici comuni o il convenzionamento per la delega di funzioni e servizi, oltre alla individuazione di un responsabile per uffici di più enti. Tale possibilità è stata disciplinata, a livello di remunerazione, dal CCNL 22 gennaio 2004.
5.2 LA PROGRESSIONE DEL PERCORSO PROFESSIONALE
Le nuove regole introducono per gli enti locali una ampia flessibilità nelle forme di valorizzazione del percorso professionale del personale. Siamo dinanzi ad una importantissima serie di strumenti mutuati dal privato, ovviamente per quanto possibile, fermo restando che vige il vincolo costituzionale del pubblico concorso per l’accesso al rapporto di lavoro alle dipendenze di una PA. E che la Corte Costituzionale ha ripetutamente in questi anni sottolineato la necessità di rispettare tale prescrizione. Vediamone i principali:
- le regole sull’accesso;
- la progressione economica;
- la progressione verticale;
- i concorsi interni ed i concorsi con riserva;
- la formazione;
- il trattamento economico accessorio;
- le indennità di posizione e di risultato.
Si deve subito sottolineare la importanza delle nuove disposizioni sull’accesso. Per ogni posto vuoto di dotazione organica le giunte hanno a disposizione, ovviamente entro gli ambiti posti dalla norma (vedi ad del titolo di studio della scuola dell’obbligo, cioè liste di collocamento, e per le categorie speciali) e le indicazioni regolamentari, una serie di possibilità:
- concorso pubblico;
- concorso pubblico con quota riservata agli interni;
- corso concorso pubblico;
- progressione verticale;
- concorso interno per profili acquisibili unicamente all’interno dell’ente.
Una dichiarazione congiunta allegata al CCNL 22 gennaio 2004 ci ricorda che tutte le forme di selezione riservata agli interni comunque denominate devono essere ricondotte alle regole contrattuali sulle progressioni verticali. Tale dichiarazione deve essere letta sulla base della interpretazione delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione che, in considerazione della natura concorsuale delle selezioni interne, attribuiscono alla competenza del giudice amministrativo il contenzioso su tali forme di selezione.
L’indicare una differenza tra progressione verticale e concorso interno per profili acquisibili unicamente all’interno dell’ente continua ad avere rilievo ai fini della individuazione dei posti che l’ente può riservare a progressioni verticali, in particolare per ciò che riguarda il loro dimensionamento rispetto alle assunzioni dall’esterno.
Da sottolineare, in particolare, la necessità di articolare in modo razionale ed equilibrato la scelta tra selezione dall’esterno e progressione verticale, cioè valorizzazione di un percorso professionale interno all’ente. Nonché la ampia autonomia di cui gli enti possono godere nella individuazione dei criteri per la selezione delle progressioni verticali.
E’ evidente che ogni comune può rapportarsi alle novità come:
- un adempimento dovuto e che introduce solo grane e rischi, ad esempio in termini di responsabilità per i dirigenti/responsabili, e di consenso per gli amministratori;
- uno strumento da utilizzare solo dinanzi a forti pressioni sindacali o dei dipendenti;
- una importante opportunità di sviluppo dell’ente, nella consapevolezza che la valorizzazione delle risorse umane ed un percorso organico di crescita professionale costituisca una importantissima leva per il miglioramento della qualità dei servizi.
E’ evidente che solo un approccio teso a valorizzare le opportunità aperte dalla legislazione e dal contratto può risultare “vincente”.
Ma questo significa, per ogni ente:
- acquisire specifiche professionalità;
- darsi un progetto unitario.
E significa, anche, non limitarsi a gestire l’esistente o a fare un puro conto di compatibilità economiche rispetto a scelte strategiche avanzate da altri soggetti, ad esempio dalle organizzazioni sindacali, che assumono obiettivi, interessi e premesse ovviamente del tutto diverse.
CAPITOLO 5
LE NORME DISCIPLINARI
Le disposizioni in materia disciplinare sono contenute negli articoli 55 e 56 del DLgs n. 165/2001 e negli articoli 24 e 25 del CCNL 6/7/1995, per come modificati dagli analoghi articoli del CCNL 22.1.2004. Specifiche regole sono dettate, ed anch’esse trovano una specifica disciplina contrattuale, nel caso di sanzioni e procedimenti disciplinari collegati a procedimenti penali.
Le norme di legge rinviano alla disciplina contrattuale la individuazione delle sanzioni e delle infrazioni. Stabiliscono la costituzione obbligatoria di uno specifico ufficio che, su impulso del dirigente del settore presso cui presta servizio il dipendente, contesta gli addebiti, istruisce il relativo procedimento e commina la sanzione. Le sanzioni del rimprovero verbale e della censura sono comminate direttamente dal dirigente del settore presso cui presta servizio il dipendente.
Tutti i provvedimenti che vanno oltre il rimprovero verbale devono essere preceduti da una contestazione scritta dell’addebito e dal sentire il dipendente, che può farsi assistere. La sanzione, con il consenso del dipendente, può essere ridotta, ma in questo caso diventa non impugnabile. E’ ammessa l’impugnazione tramite le procedure di arbitrato e di conciliazione, oltre che con ricorso al giudice del lavoro.
Le sanzioni previste dal CCNL, sulla base delle modifiche dettate dal contratto del 22.1.2004, sono le seguenti sette:
- rimprovero verbale,
- rimprovero scritto o censura;
- multa fino a 4 ore di retribuzione;
- sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 10 giorni;
- sospensione dal servizio e dalla retribuzione da 11 giorni a sei mesi;
- licenziamento con preavviso;
- licenziamento senza preavviso.
Si prevede l’obbligo della contestazione scritta, salvo il caso del rimprovero verbale, e di sentire il dipendente, che può farsi assistere da un legale o dalla associazione sindacale. La contestazione deve essere effettuata entro il termine di 20 giorni dal momento in cui il responsabile ha avuto conoscenza del fatto o dal momento in cui la struttura responsabile ha avuto conoscenza su segnalazione del responsabile della struttura presso cui il dipendente presta servizio, segnalazione che deve essere fatta, a pena di responsabilità, entro 10 giorni. Se nel corso del procedimenti il dirigente della struttura presso cui il dipendente presta servizio verifica la sua non competenza alla irrogazione della sanzione, trasmette gli atti all’ufficio competente entro 5 giorni. Il dipendente è convocato per iscritto non prima di 5 giorni dalla contestazione e decorsi inutilmente 15 giorni la sanzione è applicata nei successivi 15. La malattia non è causa ostativa del procedimento disciplinare. Le sanzioni non sono sospese in caso di assenza per malattia.
E’ consentito al dipendente il diritto di accesso.
Si deve evidenziare che viene previsto il principio della “relativa tassatività”, in base al quale possono essere sanzionate anche le mancanze non espressamente previste, in particolare dall’articolo 25 del CCNL 22.1.2004, purchè costituiscano violazione degli obblighi dei dipendenti.
Il procedimento si deve comunque concludere entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito, a pena di estinzione. Le sanzioni sono irrogate dall’ufficio competente che comunica la eventuale chiusura del procedimento. Non si tiene conto delle sanzioni irrogate prima di due anni. Sono perentori i termini iniziale (contestazione entro 20 giorni) e finale (120 giorni dall’addebito).
L’articolo 25 detta le regole da rispettare per la irrogazione delle sanzioni, cd codice disciplinare. Al codice essere data ampia pubblicità, in particolare mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti, forma di pubblicità che è tassativa.
I criteri di carattere generale sono i seguenti otto:
- intenzionalità, grado di negligenza, imprudenza o imperizia; prevedibilità dell’evento;
- rilevanza degli obblighi violati;
- responsabilità connessa alla posizione di lavoro;
- grado di danno o di pericolo o di disservizio provocati;
- sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, ivi compresi i precedenti disciplinari negli ultimi due anni ed al comportamento verso gli utenti;
- concorso di più lavoratori;
- recidiva;
- applicazione della sanzione più grave in caso di più mancanze compiute con una unica azione o omissione.
Le amministrazioni possono dare utilmente vita, in particolare, nelle realtà di piccole dimensioni alla istituzione di forme di gestione associata. Si ricorda che, con l’entrata in vigore del Contratto Collettivo Nazionale Quadro del 23.1.2001, per come modificato da quello del 24.7.2003, sull’arbitrato non è più necessario che sia istituito nel singolo ente o, in forma associata, un collegio di disciplina: il ricorso contro le sanzioni disciplinari può infatti essere proposto dinanzi all’arbitro o può essere avviato il contenzioso dinanzi al giudice del lavoro.
LE NORME DI LEGGE
Gli articoli 54, 55 e 56 del DLgs n. 165/2001 dettano i principi legislativi che sono applicabili in materia di sanzioni disciplinari e di relativo procedimento.
L’articolo 54 prevede il codice di comportamento. Esso viene adottato dal Dipartimento della Funzione Pubblica e le singole Pa possono, tramite l’Aran, avanzare specifiche segnalazioni e richiesta di modifica a tale organismo, nonché segnalare le esigenze di raccordo con le disposizioni contrattuali. Gli organi di vertice delle singole amministrazioni, nel caso degli enti locali ci si deve riferire alla giunta, ne verificano, anche sentendo le organizzazioni sindacali e le associazioni degli utenti e dei cittadini, la applicabilità e le modifiche da apportare, anche al fine di giungere alla sua personalizzazione per la specifica amministrazione. E’ suggerita la realizzazione di attività di formazione dei dipendenti ai fini della conoscenza del codice di comportamento. Al CCNL del 22.1.2004 è allegato il codice di comportamento dei dipendenti delle PA.
L’articolo 55 detta le regole per il procedimento disciplinare e per le responsabilità. Esso prevede la contrattualizzazione della disciplina della materia. Stabilisce inoltre che tutte le sanzioni più gravi del rimprovero verbale e di quello scritto, che sono irrogate dal dirigente della struttura, siano irrogate da uno specifico ufficio per il procedimento disciplinare che deve essere istituito in ogni ente: è questa una condizione di legittimità del procedimento disciplinare. La sede più idonea appare il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi; normalmente esso viene individuato nell’ufficio del personale o in quello del segretario.
Prima della irrogazione della sanzione al dipendente deve essere contestata l’infrazione ed egli ha il diritto di essere ascoltato, anche accompagnato dal legale e/o da un rappresentante sindacale. Si prevede che le parti possano convenire la riduzione della sanzione, che così diviene non impugnabile.
Contro il provvedimento, se non disposto diversamente dai contratti collettivi nazionali di lavoro, è ammesso entro 20 giorni il ricorso al collegio arbitrale di disciplina, che è composto da rappresentanti dell’ente e dei lavoratori e che può essere costituito anche in forma associata tra più amministrazioni. Negli enti locali questa norma non si applica perché è prevista la possibilità di ricorso all’arbitro.
L’articolo 56 prevede la possibilità, in assenza di norme contrattuali, di impugnare le sanzioni disciplinari dinanzi al collegio di conciliazione costituito nell’ambito della Direzione provinciale del lavoro.
LE FASI DEL PROCEDIMENTO
Le fasi del procedimento disciplinare sono quattro:
- la fase preistruttoria;
- la fase della contestazione;
- la fase di garanzia;
- la fase di decisione.
La fase preistruttoria si apre con la conoscenza del fatto specifico. Da questo momento decorrono 20 giorni di tempo per potere procedere alla contestazione formale. La contestazione formale può essere effettuata direttamente dal dirigente, nel caso in cui la sanzione disciplinare non ecceda la censura scritta, ovvero dall’ufficio per i procedimenti disciplinari nel caso in cui la sanzione da irrogare sia più pesante, previa trasmissione ad esso da parte dei dirigenti In questa fase non vi sono vincoli di tipo formale e vi è una ampia autonomia in capo all’ente. In questa fase il dirigente acquisisce ulteriori elementi, anche in direzione della individuazione del responsabile. Si ricorda che la sanzione potrà essere disposta solo in presenza di contestazioni specifiche e puntuali da evidenziare nello specifico provvedimento, elementi che in gran parte devono essere acquisiti proprio in questa fase per potere essere utilmente contestati al dipendente nel corso della sua audizione. Nella preistruttoria si deve inoltre accertare se vi sono delle mancanze addebitate al dipendente nel corso dei due anni immediatamente precedenti e ciò al fine di valutare la presenza di condizioni di recidiva che influiscono sulla sanzione disciplinare. In questa fase occorre infine valutare se è pendente per lo stesso fatto un procedimento penale o se esso vada aperto: in presenza di un procedimento penale quello disciplinare viene aperto e viene sospeso fino alla conclusione definitiva del primo.
La fase della contestazione si traduce in due momenti: la contestazione dell’addebito e la convocazione del dipendente per essere sentito a sua difesa. Anche in questi casi i termini sono fissati direttamente dal CCNL ed essi sono da intendersi come vincolanti, in particolare per ciò che riguarda il termine di 20 giorni dalla notizia del fatto o dalla trasmissione all’ufficio per i procedimenti disciplinari. Tali termini, oltre che dai CCNL, sono previsti dal DLgs n. 165/2001, articolo 55. Viene prescritta la necessità della forma scritta.
La fase di garanzia si articola in due momenti: l’audizione del dipendente e la garanzia del diritto di accesso. La audizione del dipendente è un obbligo per le amministrazioni. Il dipendente può farsi assistere da un legale o da un rappresentante sindacale. Essa deve essere svolta entro 15 giorni e l’ente non può assumere decisioni senza avere svolto questo passaggio, fatto salvo il caso in cui esso non sia stato esercitato per volontà del dipendente. Nella stessa fase il dipendente può esercitare il diritto di accesso.
La fase di decisione si deve concludere entro 120 giorni dalla sua apertura, termine che è imposto in modo vincolante e la cui inosservanza è sanzionata con la irregolarità della condanna. In caso di sussistenza del fatto occorre tenere conto dei seguenti dati: rispetto dei principi di gradualità e di proporzionalità delle sanzioni; l’intenzionalità; il grado di negligenza; la rilevanza degli obblighi violati ed il grado di danno cagionato.
IL CODICE DISCIPLINARE
Per potere avviare legittimamente qualsiasi azione disciplinare occorre che sia stato affisso il codice disciplinare. In mancanza di questo elemento il procedimento è da considerare illegittimo: siamo dinanzi ad un vincolo di tipo formale che ha il massimo rilievo, essendo posto a garanzia del dipendente.
Il codice disciplinare è contenuto nell’articolo 25 del CCNL 6.7.1995, per come modificato dall’articolo 25 del CCNL 22.1.2004.
Ad esso gli enti devono dare la massima diffusione e comunque devono affiggerlo in un luogo accessibile a tutti i dipendenti. Tale pubblicità, ai sensi dell’articolo 28 del CCNL 22.1.2004 deve essere disposta per almeno 15 giorni: la irrogazione delle sanzioni richiede come condizione di legittimità tale requisito e si dispone che le sanzioni diventino applicabili decorsi 15 giorni da tale pubblicazione.
La nozione in luogo accessibile a tutti i dipendenti deve, prudenzialmente, essere intesa nel senso che in caso di pluralità di sedi dell’ente l’affissione deve avvenire in ognuna delle sedi. Tale forma di pubblicità può essere accompagnata, ma non sostituita dalla comunicazione personale a tutti i dipendenti.
La pubblicità deve riguardare necessariamente il codice disciplinare, contenuto nell’articolo 25 del citato CCNL, ma essa può essere disposta utilmente per tutti gli articoli dettati in materia di procedimento disciplinare.
IL PROCEDIMENTO
Il procedimento disciplinare è regolamentato dall’articolo 24 del CCNL 22.1.2004. Esso dispone che esso debba essere necessariamente avviato entro il termine di 20 giorni. Tale termine decorre dal momento in cui il dirigente è venuto a conoscenza del fatto (vedi in precedenza fase preistruttoria) ovvero entro 20 giorni da quando lo specifico ufficio ha avuto conoscenza del fatto tramite la segnalazione del dirigente della struttura competente. Da evidenziare che tale termine ha natura perentoria, per cui la sua violazione determina la irrogazione della sanzione della illegittimità dell’intero procedimento disciplinare.
L’avvio del procedimento disciplinare si concretizza nella contestazione mossa al dipendente. Si sfugge a questo vincolo procedurale solo nel caso in cui la sanzione sia il rimprovero verbale. La contestazione può essere mossa dal dirigente del settore competente nel caso in cui si ritiene che la sanzione irrogabile sia quella del rimprovero verbale o scritto. Deve essere mossa dallo specifico ufficio nei casi in cui si ritiene che la sanzione da irrogare sia più grave. Da sottolineare che, a conclusione del procedimento, l’ufficio per le sanzioni disciplinari può irrogare la sanzione di competenza del dirigente, ma mai il dirigente può irrogare una sanzione più pesante di quelle di sua competenza.
La contestazione deve essere formalizzata nei confronti del dipendente attraverso uno degli strumenti previsti dalla normativa in materia di notificazioni. In altri termini può avvenire attraverso la consegna diretta nel luogo di lavoro, facendo firmare al dipendente una ricevuta; attraverso una raccomandata con ricevuta di ritorno; attraverso la notifica a mezzo posta che vale ai sensi della legge n. 890/1982 anche come prova della avvenuta notificazione.
Occorre inoltre garantire il rispetto della privacy, per cui essa può essere disposta unicamente attraverso una busta chiusa.
La trasmissione dal dirigente allo specifico ufficio può avvenire:
- immediatamente, cioè nella fase preistruttoria, sulla base della valutazione operata dal dirigente che la sanzione irrogabile è più grave della censura scritta. Tale comunicazione deve essere effettuata entro 10 giorni; in caso di violazione di questa regola il dirigente diventa passibile di sanzione disciplinare o, meglio, di accertamento della responsabilità;
- nel corso del procedimento disciplinare, ove emerga che la sanzione è più grave della censura. In questo caso la trasmissione deve essere effettuata entro 5 giorni ed occorre darne comunicazione in modo contestuale allo stesso dipendente. Si prescrive che, in questo caso, non vi sia soluzione di continuità, cioè che l’ufficio riprenda il procedimento dallo stato in cui lo ha lasciato il responsabile.
Nella comunicazione allo specifico ufficio si prevede che il dirigente non si limiti alla mera comunicazione ma che evidenzi la necessità di avvio del procedimento disciplinare.
La conoscenza del fatto può essere realizzata da parte del dirigente in tutte le forme possibili, non è cioè prevista alcuna formalità o vincolo procedurale. Sicuramente la segnalazione da parte di un amministratore costituisce una condizione che realizza tale elemento, così come la segnalazione da parte di un utente. Nel caso in cui la contestazione sia effettuata direttamente da parte dello specifico ufficio per i procedimenti disciplinari è utile che la comunicazione sia inviata per conoscenza anche al dirigente della struttura presso cui presta servizio il dipendente.
Il passaggio immediatamente successivo alla contestazione è costituito dall’audizione del dipendente. Tale audizione non può essere disposta prima che siano decorsi 5 giorni lavorativi dalla ricezione della contestazione da parte del dipendente, tempo minimo che è posto a sua difesa e che non può essere mai ridotto. Nel caso in cui decorrano inutilmente 15 giorni il dirigente o l’ufficio competente alla gestione dei procedimenti disciplinari possono disporre che la sanzione sia irrogata decorsi altri 15 giorni. Questa comunicazione può essere allegata anche a quella con cui si avvia il procedimento disciplinare, cioè alla contestazione iniziale. Essa deve comunque essere notificata al dipendente. Si suggerisce che la data e l’ora della audizione siano rimessi alla indicazione del dipendente. In caso che ciò non si realizzi, è necessario fissare uno specifico appuntamento. Comunque si può ricordare che il dipendente, in aggiunta o in alternativa alla audizione diretta, può presentare una nota scritta.
Il dipendente può farsi assistere nella audizione dal suo difensore e/o da un rappresentante sindacale. Appare opportuno che di tale audizione venga redatto uno specifico verbale.
Non siamo dinanzi ad un procedimento amministrativo, per come regolamentato dalla legge n. 241/1990, ma ad una attività di diritto privato ascrivibile all’esercizio dei poteri datoriali da parte del dirigente. Non è quindi possibile nominare un responsabile del procedimento; sulla base dei principi generali il dirigente può al più delegare in tutto o in parte le sue incombenze ad un dipendente dell’ente
Il dipendente, ai sensi della legge n. 241/1990, per come modificata dalla legge n. 15/2005, ha diritto di accesso a tutti gli atti in possesso dell’ente che lo riguardino direttamente. Si deve intendere in senso assai ampio tale diritto, per cui in linea generale esso deve essere considerato come prevalente rispetto alle esigenze di tutela della privacy. Ricordiamo che, peraltro, esso potrebbe anche essere limitato, per specifiche e comprovate esigenze, anche al diritto alla visione.
Il procedimento disciplinare si conclude con la irrogazione della sanzione ovvero con l’archiviazione o “assoluzione” del dipendente. Si deve ricordare che per la conclusione del procedimento disciplinare è stabilito il termine insuperabile di 120 giorni dalla sua apertura; tale termine è superabile solo nel caso di procedimento penale aperto per lo stesso fatto per il quale è avviato il procedimento disciplinare. In questo caso il procedimento disciplinare rimane sospeso fino alla conclusione definitiva del procedimento penale e da quel momento deve essere riavviato e concluso entro i 120 giorni successivi. Anche in questo caso il termine è imperativo e la sua violazione determina la illegittimità dell’intero procedimento e della eventuale sanzione.
Il provvedimento deve essere adottato dal dirigente della struttura presso cui il dipendente presta la sua attività nel caso di rimprovero verbale o scritto o dal dirigente dell’ufficio per i procedimenti disciplinari per le sanzioni più gravi. Occorre anche in questo caso rispettare la tutela del diritto alla privacy. Il provvedimento non è una determinazione, ma un atto gestionale di diritto privato compiuto nell’esercizio dei poteri e delle capacità del privato datore di lavoro. Non occorre, perciò, una specifica motivazione. Ma è quanto mai opportuno che essa sia comunque contenuta nel provvedimento di irrogazione della sanzione: la motivazione appare necessaria per dimostrare la correttezza dell’operato dell’ente.
Si ricorda che il dipendente e l’ente possono convenire, nel qual caso è inibito però ogni tipo di ricorso, che la sanzione sia ridotta in quella immediatamente meno grave, ragione che ha portato il CCNL del 22.1.2004 ad introdurre, tra il licenziamento con preavviso e la sospensione fino a 10 giorni, la sanzione intermedia della sospensione da 11 giorni a 6 mesi.
La sanzione irrogata dall’ente è operativa dai 20 giorni successivi al momento in cui viene comunicata al dipendente. Nel caso in cui essa sia impugnata dinanzi all’arbitro la sua applicazione è differita all’esito del giudizio arbitrale. Nel caso in cui sia impugnata dinanzi al giudice ordinario essa viene invece eseguita immediatamente decorso il periodo di tentativo obbligatorio di conciliazione.
IL CODICE DI COMPORTAMENTO
Come prima ricordato, al CCNL del 22.1.2004 è allegato il codice di comportamento adottato dal Dipartimento della Funzione Pubblica per tutti i dipendenti delle PA.
Esso consta di 13 articoli che, nell’ordine, dettano le seguenti prescrizioni:
- Obblighi di lealtà, diligenza ed imparzialità;
- Obbligo di servire esclusivamente la Nazione e di rispettare i principi di buon andamento ed imparzialità della amministrazione; nonchè di rispettare la legge e di perseguire esclusivamente l’interesse pubblico. Ed ancora dovere di indipendenza e di astensione in caso, anche solo apparente, di conflitto di interessi. Obbligo di rispetto dell’orario di lavoro, di uso corretto e custodia dei beni affidatigli e di non utilizzazione delle informazioni acquisite per scopi privati. Obbligo di favorire l’instaurazione di un rapporto di fiducia e collaborazione tra cittadini e PA, nonché di favorire il diritto di accesso e di limitare gli adempimenti posti a carico dei cittadini ed infine di favorire l’applicazione del principio della sussidiarietà.
- Obbligo di non chiedere né accettare regali, fatta eccezione per quelli di modico valore e che appartengono a regole di uso comune, né da parte di coloro che sono in stretto rapporto con la sua attività, né dai collaboratori o congiunti.
- Obbligo di comunicazione, salvo che nel caso di partiti e sindacati, delle associazioni a cui aderisce se le stesse possono essere coinvolte nell’attività dell’ufficio e divieto di costringere altri dipendenti ad aderire ad associazioni.
- Obbligo di comunicazione per iscritto di tutti gli incarichi di collaborazione retribuiti intercorsi negli ultimi 5 anni; obbligo per i dirigenti di comunicazione di tutte le partecipazioni azionarie con strutture che possono avere rapporto con l’ufficio. Tali obblighi si estendono anche alla posizione degli immediati congiunti. A richiesta, obbligo per il dirigente di comunicare la propria posizione fiscale e patrimoniale.
- Obbligo di astensione dal partecipare alle decisioni in cui si possa avere interesse diretto o di parenti fino al quarto grado ed in tutti i casi in cui siano interessati soggetti con i quali ha una grave inimicizia. Esso si estende a tutti i casi in cui vi siano gravi ragioni di convenienza. Sulle astensioni decide il dirigente.
- Obbligo di non accettare incarichi, retribuzioni o utilità da soggetti con cui si abbia un rapporto per ragioni di ufficio, anche nell’ultimo biennio.
- Obbligo di imparzialità e di rigetto di qualsiasi pressione o segnalazione, anche se proveniente dal dirigente.
- Divieto di sfruttare la propria posizione per scopi di tipo personale.
- Obbligo di non ritardare e divieto di assegnare ad altri compiti che devono essere da lui svolti, nonché di limitare le assenze, di non utilizzare a fini privati le attrezzature, ivi compreso il telefono, e di non accettare utilità per l’acquisto di beni dell’ente.
- Obbligo di prestare adeguata attenzione alle domande dei cittadini, di rispettarne le esigenze, di non ritardare agli appuntamenti, di rispondere ai reclami, di seguire l’ordine cronologico nella trattazione delle pratiche, di astenersi da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’ente, fatti salvi i casi tutela di diritti sindacali, e di informare il dirigente dei rapporti con la stampa. Divieto di assumere impegni che possano generare sfiducia nei confronti della amministrazione. Obbligo di usare un linguaggio chiaro e di rispettare gli standard di qualità, di garantire la continuità del servizio.
- Divieto di ricorre a mediazioni nella conclusione dei contratti e di concluderli con soggetti privati con i quali ha avuto rapporti negli ultimi 2 anni, in questo caso astenendosi.
- Obbligo di cooperare con gli uffici per il controllo interno al fine di garantire la valutazione delle attività svolte.
Da ricordare che l’articolo 25 del CCNL 5.10.2001 prevede che le singole amministrazioni si diano uno specifico codice di comportamento per le molestie sessuali nei luoghi di lavori, anche utilizzando le linee guida dettate a livello nazionale.
GLI OBBLIGHI DEI DIPENDENTI
L’articolo 23 del CCNL 6.7.1995, come modificato dall’articolo 23 del CCNL 22.1.2004, disciplina gli obblighi dei dipendenti.
Esso prevede l’obbligo di servire la Repubblica e di rispettare i principi di imparzialità e buon andamento della attività amministrativa, nonché la applicazione del codice di comportamento allegato al contratto (vedi prima). Egli deve favorire la instaurazione di buoni rapporti tra cittadini e PA. Ed in particolare deve:
- collaborare con diligenza, applicando le norme contrattuali e le disposizioni dettate a tutela della sicurezza sul lavoro;
- rispettare il segreto d’ufficio;
- non utilizzare a fini privati le informazioni di cui è a conoscenza per ragioni d’ufficio;
- rispettare e garantire il diritto di accesso e la applicazione delle norme sulla semplificazione della documentazione amministrativa;
- rispettare l’orario e le procedure di controllo e non assentarsi dal luogo di lavoro senza autorizzazione;
- mantenere comportamenti corretti durante l’orario di lavoro;
- non ritardare la guarigione e, durante i periodi di malattia, non occuparsi di altre attività;
- eseguire gli ordini, chiedendone al più la conferma per iscritto, salvo che gli stessi contengano un reato o costituiscano illecito amministrativo;
- vigilare sui propri collaboratori;
- avere cura dei beni affidati;
- non utilizzare i beni dell’ente per finalità private;
- non chiedere né accettare incarichi, compensi, regali o altre utilità;
- osservare le disposizioni sull’accesso all’ente e non introdurre soggetti estranei;
- comunicare la residenza o la propria dimora, anche temporanea;
- dare tempestiva comunicazione al proprio ufficio della malattia;
- astenersi dalle decisioni e dalle attività che riguardano interessi propri o di parenti fino al quarto grado.
IL CODICE DISCIPLINARE
L’articolo 25 del CCNL 6.7.1995, per come modificato dall’articolo 25 del CCNL 22.1.2004, detta il codice disciplinare. Tale articolo (vedi in precedenza) deve essere stato affisso nell’ente per almeno 15 giorni consecutivi in luoghi facilmente accessibili ai dipendenti. Le mancanze non tipicizzate sono punite con la applicazione delle sanzioni per fattispecie analoghe.
I criteri di carattere generale che, in applicazione dei principi di carattere generale della gradualità e proporzionalità delle sanzioni, regolano la materia della irrogazione delle sanzioni disciplinari sono i seguenti sei:
- intenzionalità, grado di negligenza, imprudenza o imperizia; prevedibilità dell’evento;
- rilevanza degli obblighi violati;
- responsabilità connessa alla posizione di lavoro occupata;
- grado di danno o di pericolo o di disservizio provocati;
- sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, ivi compresi i precedenti disciplinari negli ultimi due anni ed al comportamento verso gli utenti;
- concorso di più lavoratori.
Ed ancora si stabilisce che in caso di recidiva sia irrogata la sanzione di maggiore gravità tra quelle previste e che si dia corso alla applicazione della sanzione più grave in caso di più mancanze compiute con una unica azione o omissione.
Il codice passa quindi ad indicare le sanzioni da irrogare per ogni mancanza:
- dal rimprovero verbale o scritto alla multa fino a 4 ore (che è introitata dall’ente per finalità sociali a favore dei dipendenti) per: inosservanza delle norme di servizio, sulle assenze per malattia e dell’orario; condotta non corretta; negligenza nella attività e nella custodia dei beni; inosservanza delle norme di sicurezza se non ne siano scaturiti danni o disservizi; rifiuto di assoggettarsi a visite personali finalizzate alla tutela del patrimonio dell’ente e insufficiente rendimento sul lavoro;
- sanzione della sospensione dal servizio fino a 10 giorni per: recidiva per le mancanze più leggere; particolare gravità delle mancanze più leggere; assenza ingiustificata dal servizio fino a 10 giorni o arbitrario abbandono; ingiustificato ritardo a trasferirsi nella nuova sede; attività che ritardano la guarigione; testimonianza falsa o rifiuto della stessa nei procedimenti disciplinari; comportamenti minacciosi o ingiuriosi o calunniosi; alterchi; manifestazioni ingiuriose nei confronti dell’ente; molestie sessuali; violazione di obblighi da cui sia derivato disservizio; sistematici comportamenti aggressivi o denigratori;
- sanzione della sospensione dal servizio da 11 giorni a 6 mesi (con privazione della retribuzione per i primi 10 giorni e per gli altri con stipendio ridotto al 50% e non computo nella anzianità di servizio di tutto il periodo) per: recidiva nel biennio delle sanzioni punite con la sospensione fino a 10 giorni; assenza ingiustificata da 10 a 15 giorni; occultamento di circostanze sulla sottrazione di denaro o beni dell’ente; persistente cattivo rendimento dovuto a fatti dolosi o colposi; esercizio di forme di violenza morale nei confronti di altro dipendente per procurargli un danno (mobbing); molestie sessuali di particolare gravità;
- sanzione del licenziamento con preavviso per: recidiva plurima di almeno 3 volte nell’anno delle mancanze di cui ai precedenti 2 punti o recidiva di almeno 1 volta nel biennio per le mancanze di cui al precedente punto; recidiva nella assenza ingiustificata dal servizio da 10 a 15 giorni; ingiustificato rifiuto di trasferimento; mancata ripresa del servizio; continuità nel biennio delle gravi carenze nella attività amministrativa; recidiva del mobbing ad altro dipendente; recidiva di molestie sessuali; condanna definitiva per reati che, commessi al di fuori dell’orario di lavoro, sono gravi ed impediscono la prosecuzione del rapporto di lavoro; violazione dei doveri che impediscono la prosecuzione del rapporto di lavoro; reiterati comportamenti che danneggiano l’ente;
- sanzione del licenziamento senza preavviso per: terza recidiva nel biennio delle vie di fatto; accertamento dell’uso di documenti falsi per entrare in servizio; condanna passata in giudicato per i reati indicati e per gravi delitti commessi in servizio; condanna definitiva da cui scaturisce l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; condanna definitiva per reato commessi fuori dall’ufficio e che non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro neppure provvisoriamente; gravi ed intenzionali violazioni degli obblighi che non consentono la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.
IL PROCEDIMENTO PENALE
In caso di fatti commessi in servizio che hanno rilevanza penale vi è l’obbligo di informare l’autorità giudiziaria attraverso una denuncia e di aprire il procedimento disciplinare, che rimane sospeso fino alla sentenza definitiva, principio che si applica anche nel caso in cui l’obbligo della denuncia emerga nel corso del procedimento disciplinare. La stessa regola si applica anche nel caso in cui l’ente venga a conoscenza di un processo penale per fatti oggetti di procedimento disciplinare. Questo è avviato nel caso in cui la sanzione può essere disposta solo a seguito di condanna definitiva.
Il procedimento disciplinare è riattivato entro 180 giorni dalla sentenza definitiva, ridotti a 90 per i casi di cui all’articolo 5, comma 2, della legge n. 97/2001, e concluso entro i successivi 120 giorni.
L’irrogazione della sanzione disciplinare non ha carattere automatico a seguito della condanna penale, salvo i casi di cui all’articolo 5, comma 2, della legge n. 97/2001 ed all’articolo 28 del codice penale per la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici. In caso di assoluzione con formula piena l’ente dispone la chiusura del procedimento disciplinare, fatta salva la contestazione di altre violazioni. In caso di licenziamento a seguito di condanna e di successiva revisione il dipendente ha diritto ad essere nuovamente assunto, con la corresponsione di quanto maturato, fatti salvi gli istituti legati alla presenza.
LE SOSPENSIONI CAUTELARI
Le sospensioni cautelari possono essere disposte sia nell’ambito dei procedimenti disciplinari che di quelli penali.
Per i procedimenti disciplinari l’istituto è applicabile per le fattispecie sanzionabili con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Si dispone l’allontanamento dal servizio per un periodo non superiore a 30 giorni, con conservazione della retribuzione e valutazione ai fini della anzianità. Tale periodo è calcolato in caso di condanna, ivi compresa la esclusione dal calcolo della anzianità.
Nel caso di procedimenti penali la sospensione è disposta automaticamente a seguito della privazione della libertà personale, per tutta la durata di tale periodo e l’ente può prolungarla dopo la scarcerazione fino alla sentenza definitiva. L’ente deve applicare tale sanzione nei casi previsti dalle norme contrattuali. La sospensione può essere disposta, a seguito di rinvio a giudizio, per procedimenti che attengono alla sua attività e per i quali, in caso di condanna, è prevista la sanzione del licenziamento con o senza preavviso. Essa non può mai superare la durata di 5 anni. Spetta al dipendente una indennità pari al 50% della retribuzione con eventuale conguaglio a seguito del provvedimento finale emesso dall’autorità giudiziaria.
CAPITOLO 6
L’ORARIO DI LAVORO E LE FERIE
La durata ordinaria dell’orario di lavoro è fissata in 40 ore settimanali ovvero, come nel caso degli enti locali, in 36 ore settimanali sulla base di una specifica previsione contrattuale. Negli enti locali e, più in genere, in tutta la Pubblica Amministrazione, ci ricorda la circolare, la materia non è rimessa alla contrattazione decentrata. Il riferimento all’anno non deve al riguardo essere inteso come “anno civile”, cioè tra i giorni 1 gennaio e 31 dicembre, ma “come un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell’anno ed il corrispondente giorno dell’anno successivo”.
La normativa ha abrogato i limiti alla durata massima dell’orario giornaliero di lavoro; si può arrivare a ritenere fissato in 13 ore tale periodo sulla base delle disposizioni dettate in tema di riposi giornalieri, che impongono in linea generale un periodo minimo di 11 ore consecutive.
La durata massima è fissata in 48 ore settimanali da calcolare come media riferita a sette giorni per un periodo di riferimento non superiore a 4 mesi. Periodo di riferimento che la contrattazione collettiva può elevare fino a 12 mesi. La contrattazione collettiva è chiamata inoltre a fissare il tetto massimo di durata dell’orario settimanale di lavoro. Il tetto deve essere applicato sia nel caso di “orario rigido ed uniforme”, sia nel caso di orario “disciplinato in senso multiperiodale”: in quest’ultima fattispecie intendendolo come media. Il che vuol dire che può essere superato in alcuni periodi il tetto delle 48 ore, purchè esso non venga però superato come durata media nell’intero arco di tempo considerato.
La violazione di tali disposizioni è sanzionata attraverso la comminazione di sanzioni amministrative per ogni lavoratore e per ogni periodo di superamento del tetto. La circolare chiarisce che la esclusione del periodo di ferie e di quello di malattia ai fini del calcolo del tetto massimo deve essere estesa anche alle assenze dovute a gravidanza e ad infortunio, in quanto “si ricollegano allo stato di salute del lavoratore”. Mentre tutte le altre cause di assenza, come permessi ed aspettative ad esempio, devono essere ricomprese, “sia pur con indicazione delle ore pari a zero”. In considerazione di tale esclusione il periodo temporale di riferimento deve essere considerato come scorrevole, per cui un arco temporale che va da gennaio ad aprile può prolungarsi a seguito di assenze per malattia fino al mese di maggio o oltre. Da sottolineare che non trova applicazione, ad avviso della circolare, la procedura estintiva della violazione mediante diffida, e ciò in ragione della condotta commissiva e del non risultare recuperabile “l’interesse sostanziale della norma”.
Le PA che hanno più di 10 dipendenti sono tenute ad effettuare una comunicazione alle Direzioni Provinciali del Lavoro, settore ispezione del lavoro, nel caso di superamento delle 48 ore settimanali. Sono numerosi i chiarimenti dettati dalla circolare, che differenziano significativamente l’ambito di applicazione di tale prescrizione rispetto a quella del tetto massimo: tale comunicazione, in primo luogo, deve essere effettuata solo nel caso in cui esso sia avvenuto per lavoro straordinario e non per orario plurisettimanale. Il periodo di riferimento temporale della comunicazione, è questa la seconda indicazione, non è variabile, come abbiamo visto per il calcolo del superamento in caso di ferie e/o assenze per malattia e/o gravidanza e/o infortunio, ma è riferita ad un periodo fisso. Ed ancora, sempre sul superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, la “comunicazione deve riguardare il numero delle settimane in cui detto limite risulta superato per ogni periodo di 7 giorni”. L’obbligo della comunicazione non scatta per il personale esentato dal rispetto delle prescrizioni sull’orario di lavoro, ad esempio il personale di supporto agli organi politici. Ed infine si applica, vista la natura omissiva di tale comportamento e la ricuperabilità dell’interesse protetto, la procedura estintiva della diffida.
Si deve evidenziare che la circolare non prevede possibilità di deroga in presenza di circostanze particolari pure previste da altre norme di legge, ad esempio lo straordinario elettorale.
La circolare detta poche prescrizioni di interesse delle PA in tema di straordinario, che deve essere contenuto e che determina un obbligo di comunicazione nel caso in cui maturi la condizione di superamento delle 48 ore settimanali, da intendersi come valore assoluto.
Ai fini del calcolo del tetto orario non si devono calcolare, per esplicita previsione legislativa, le ferie e le assenze per malattia; la circolare del Ministero del Lavoro estende tale esenzione a tutte quelle che possono essere ritenute come “stato invalidante”, quindi anche a tutte le assenze legate a condizioni di salute, come ad esempio la gravidanza e l’infortunio. Da sottolineare che la norma di legge prevede, ci ricorda la circolare, che sono escluse dal computo anche le ore di straordinario recuperate con riposo compensativo. La circolare chiarisce che tale possibilità è subordinata al fatto che tanto il periodo di lavoro straordinario che il riposo compensativo siano “effettuati in un medesimo periodo di riferimento”, mentre se i periodi sono diversi si deve “provvedere a computare le ore di straordinario effettuate”. In particolare ciò vale per il calcolo del superamento delle 48 ore nel corso della settimana. E’ opportuno ricordare che la comunicazione dell’avvenuto superamento del tetto nel corso della settimana non è dovuta in caso di orario multiperiodale, ma solo in caso di straordinario.
Per il Ministero del Lavoro il calcolo per i contratti a termine di durata inferiore ai 4 mesi va effettuato per il periodo di lavoro effettivo, mentre per quelli risolti prima della scadenza si deve riferire al periodo di 4 mesi ovvero di sei o di 12 qualora elevato in tale misura dalla contrattazione collettiva.
RIPOSI E PAUSE
Il DLgs n. 66/2003 prevede l’obbligo di carattere generale di almeno 11 ore consecutive di riposo tra la cessazione di una giornata e l’inizio di un’altra. Tale vincolo vale anche nel caso in cui il dipendente sia titolare di più di un rapporto di lavoro. Esso non deve necessariamente essere consecutivo nel caso di prestazioni caratterizzate da attività che deve essere svolta in modo frazionato durante la giornata. Non si contano ai fini del calcolo di tale periodo minimo i riposi intermedi e le pause comprese durante l’orario di lavoro, se complessivamente non superiori a 2 ore: “questi periodi non rientrano né nell’orario di lavoro né nel periodo di riposo”.
Le deroghe alla durata minima dei riposi giornalieri devono essere definite in sede di contrattazione collettiva.
In materia di pause si deve considerare che quella di 10 minuti, da fruire nel caso di orario che superi le sei ore giornaliere, è da considerare mobile. Le durate e le modalità di tali pause sono fissate in sede di contrattazione collettiva. Essa può essere fruita anche nel luogo di lavoro e può essere collocata all’inizio o alla fine dell’orario di lavoro. Sono da considerare abrogati gli obblighi di esporre l’orario di lavoro e quello di comunicarlo all’ispettorato del lavoro. Queste pause, al pari del periodo necessario per recarsi al lavoro, per i riposi intermedi, per le soste di durata non inferiore a 10 minuti e non superiore a 2 ore, non sono remunerate, salva diversa previsione (che non esiste nel caso degli enti locali) della contrattazione collettiva.
I lavoratori che utilizzano il videoterminale per almeno 20 ore settimanali e per almeno 4 ore consecutive hanno diritto ad una pausa fissata in sede di contrattazione collettiva ovvero, ove non previsto in tale sede, ad una pausa di 15 minuti ogni 2 ore di applicazione continuativa. Tale pausa è considerata orario di lavoro e non può essere cumulata all’inizio o alla fine dell’orario. Essa assorbe quella di 10 minuti prima descritta, cioè nel caso di almeno 6 ore di durata giornaliera dell’orario di lavoro.
Il riposo settimanale è di almeno 24 ore consecutive e, di regola, coincide con la domenica. Esso si somma ai riposi giornalieri, per cui di seguito il dipendente deve fruire di almeno 35 ore consecutive, cioè le 24 del riposo settimanale e le 11 del riposo giornaliero minimo. Tale giorno di riposo può non coincidere con la domenica in presenza di una delle seguenti ragioni: esistenza di interessi “apprezzabili” da parte dell’ente, rispetto della presenza di un giorno di riposo per ogni settimana e non superamento dei limiti minimi posti a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. La deroga è possibile in caso di articolazione in turni dell’orario di lavoro. Possono essere derogati i requisiti della consecutività del riposo, fermo restando il limite minimo di 24 ore, e della durata minima di un giorno nel caso di riposo compensativo. La mancata osservanza delle norme sul riposo giornaliero e su quello settimanale è oggetto di una specifica sanzione. La circolare evidenzia che le sanzioni per la mancata osservanza del riposo minimo settimanale si applicano anche per il lavoro svolto dai dirigenti e dal personale direttivo.
LE FERIE
Per ciò che riguarda i dipendenti degli enti locali le disposizioni di maggiore rilievo sono quelle sulla determinazione del periodo entro cui le ferie possono essere fruite e le indicazioni sulla monetizzazione delle ferie non godute. La norma pone il vincolo che almeno due settimane di ferie consecutive siano godute nel corso dell’anno. Il mancato godimento delle due settimane è oggetto di una specifica sanzione. La circolare non lo dice espressamente, ma è evidente che il datore di lavoro deve collocare d’autorità in ferie i dipendenti nel caso in cui non usufruiscano di tale periodo minimo nel corso dell’anno. Ricordiamo che per il comparto regioni ed autonomie locali l’articolo 19 del CCNL 6.7.1995 prevede che due settimane consecutive siano di regola godute nel periodo estivo. Il periodo restante, ci dice il DLgs n. 66/2003, deve essere goduto entro i 18 mesi successivi all’anno di maturazione; nel contratto del personale del settore enti locali tale periodo è fissato in sei mesi; la circolare conclude che il mancato rispetto di questo termine costituisca una “violazione esclusivamente contrattuale”. La monetizzazione è consentita dalla norma di legge esclusivamente per l’eventuale periodo eccedente le quattro settimane minime fissate dalla stessa legge; per il settore enti locali ricordiamo che il contratto vieta la monetizzazione, salvo che al momento della risoluzione del rapporto di lavoro. La circolare si esprime in modo anodino sulla norma da applicare: la monetizzazione può essere effettuata “tenendo conto” per il settore del pubblico impiego delle previsioni dettate al riguardo.
LAVORO NOTTURNO
Sono poche le disposizioni dettate su questo punto che toccano significativamente gli enti locali. Esso si realizza nel cado di lavoro prestato per almeno 7 ore consecutive in un periodo che comprende l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino. Il lavoratore notturno è definito come colui che svolge, durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale, nonché colui che svolge durante tale periodo almeno una parte del suo orario di lavoro, periodo che, in caso di assenza di una specifica disciplina contrattuale, è quantificato in un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno. Nel calcolo di tale periodo non si tiene conto di eventi eccezionali e straordinari.
E’ richiesta la idoneità del lavoratore, il che deve essere accertato da parte delle strutture sanitarie pubbliche o tramite il medico competente; la sussistenza di tale requisito deve essere periodicamente accertata ed in caso che esso venga meno il dipendente deve essere assegnato a lavoro diurno. Vi sono esclusioni dettate direttamente dalla norma (ad esempio le donne incinte); mentre altri lavoratori hanno diritto a richiesta di astenersi da tale prestazione (ad esempio le lavoratrici che hanno almeno un figlio in piccola età. In caso di utilizzazione del lavoro notturno, anche tramite turni, il datore di lavoro è tenuto ad effettuare una specifica comunicazione alla Direzione provinciale del lavoro. La inosservanza delle prescrizioni fissate dal legislatore è sanzionata direttamente dalla norma.
LE DEROGHE PER LA PA
La circolare ricorda la piena applicabilità della normativa alle PA. Si ricorda la possibilità per cui la contrattazione collettiva può fissare l’orario di lavoro su base plurisettimanale, per come peraltro già previsto dalla stessa.
Un aspetto di grande rilievo innovativo per gli enti locali è contenuto nella parte della circolare che si occupa delle deroghe alle norme sul riposo giornaliero, sulle pause, sul lavoro notturno e sulla durata massima dell’orario settimanale di lavoro. Di regola le deroghe devono essere fissate in sede di contrattazione collettiva, che come abbiamo visto può essere anche intesa come quella effettuata su base decentrata integrativa. In assenza le deroghe possono essere dettate da uno specifico decreto del Ministro del lavoro.
La circolare evidenzia inoltre che le deroghe dettate dal legislatore in tema di orario normale di lavoro, durata massima dell’orario di lavoro, lavoro straordinario, riposo giornaliero, pause, modalità di effettuazione del lavoro notturno e durata del lavoro notturno non sono da intendere come “ipotesi tassative”, ma esemplificative. Su questa base la circolare ammette le deroghe anche per altre figure professionali oltre a quelle previste direttamente dal legislatore. Sulla durata massima dell’orario di lavoro, la circolare ricorda che il limite non si applica alle figure che svolgono una attività peculiare tale che non è possibile predeterminare la durata del loro lavoro, sempre che non sia possibile una diversa organizzazione interna. Sono da intendere comprese in tale novero i dipendenti che svolgono attività di supporto diretto agli organi politici, anche negli enti locali. Ovviamente occorre fare salve le esigenze minime poste a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Tali soggetti, è questo un ulteriore importante elemento, sono individuati direttamente da parte dell’ente.
LE SANZIONI E LE ABROGAZIONI
Le sanzioni previste dal DLgs n. 213/2004 sono entrate in vigore contestualmente alla entrata in vigore del provvedimento, cioè dal giorno 1 del mese di settembre dell’anno 2004. Esse, ove abbiano una natura amministrativa, non sono, in base ai principi generali, retroattive, né operano sui rapporti non esauriti, né sui provvedimenti assunti dopo tale data ma riferiti a situazioni verificatesi precedentemente. Occorre ricordare che alcune delle sanzioni previste hanno però un carattere penale e ad esse si applicano i principi posti in materia.
L’entrata in vigore dei DLgs n. 66/2003 e n. 213/2004 ha determinato la abrogazione delle disposizioni precedenti, in particolare dell’articolo 12 del RD n. 1955/1923 e dell’articolo 1 del DM 3 agosto 1999, ambedue in tema di obbligo di esporre l’orario di lavoro. Continuano, ovviamente, a restare in vigore le norme richiamate espressamente.