Le pubbliche amministrazioni devono remunerare lo svolgimento in via di fatto di mansioni
superiori da parte dei propri dipendenti, anche in assenza della loro assegnazione formale.
E’ questo il principio dettato dalla sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione
n. 14293/2024.
Leggiamo che “il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da
riconoscere nella misura indicata nell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. n. 165 del 2001, non è
condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni,
posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di
assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro
prestato, in ossequio al principio di cui all’articolo 36 della Costituzione, sicché il diritto va
escluso solo qualora l’espletamento sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente,
oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in
ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o
generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento; si e dunque affermato che tali
principi operano anche in relazione allo svolgimento di fatto di funzioni dirigenziali a
condizione che il dipendente dimostri di averle svolte con le caratteristiche richieste dalla
legge, ovvero con l’attribuzione in modo prevalente sotto il profilo qualitativo, quantitativo e
temporale, dei compiti propri di tali mansioni. Si è inoltre precisato che a tal fine è
innanzitutto necessario che l’ente abbia provveduto ad istituire la posizione dirigenziale,
perché, sulla base delle previsioni del d.lgs n. 165/2001, la valutazione sulla rilevanza
degli uffici, sulle risorse umane e finanziarie da assegnare agli stessi e in genere
sull’organizzazione è rimessa al potere discrezionale della P.A. che non può essere
sindacato nel merito in sede giudiziale”.