Il licenziamento di un dipendente disabile e che accumula un lungo periodo di assenza per
comporto costituisce una extrema ratio ed il datore di lavoro è chiamato a dimostrare che
non siamo in presenza di ragioni discriminatorie alla base del provvedimento di
licenziamento. Lo ha stabilito la sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione n.
11731/2024.
Leggiamo che occorre ricordare in premessa “la riconducibilità dell’istituto del comporto a
quel punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di
assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non
doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano
all’organizzazione aziendale".
Si deve considerare consolidato che “in tema di licenziamento, costituisce discriminazione
indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la
mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in
conseguenza della disabilità, converte il criterio, in apparenza neutro, del computo del
periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo
sociale protetto, siccome in posizione di particolare svantaggio”.
Di conseguenza, si deve considerare necessaria “l’adozione, da parte dei datori di lavoro
pubblici e privati, di ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza
comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi
di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di
un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una
prestazione lavorativa utile all’ impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con
le posizioni degli altri lavoratori; fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni
soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi”.